FUORISCHERMO

 

IL FANTASMA DEL DOLORE
Riflessioni extra dopo la visione di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni,
film vincitore della Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes
ERICA BUZZO ERICA BUZZO
4 mesi, 3 settimane, 2 giorni Un giorno d’inverno nella Bucarest del 1987 e un tema delicato e controverso come quello dell’aborto trovano nell’amicizia tra due ragazze la dimensione storica (e narrativa) privilegiata dal regista rumeno. È la tragedia di un bambino non voluto, la decisione di una ragazza-madre di andare contro la legge, il degrado di una realtà in ginocchio di fronte alla clandestinità, vacillante a contatto con il laido e la menzogna ed è la forza di un’amicizia disposta a fare i conti con tutto ciò. Otilia e Gabita, studentesse al Politecnico (e dunque esonerate dai ‘campi di lavoro’) di Bucarest, sono colte fin dalle prime inquadrature nella loro camera a due presso la Casa dello Studente. Qualcosa di ‘diverso’ però è lì da venire quel giorno e il regista non indugia a ‘spiegare’ l’antefatto e mai lo farà. Gabita deve abortire e Otilia la appoggia: nessuna parola delle due tradisce lo sguardo imparziale e impietoso insieme di chi narra. La serietà della faccenda non è affidata ad un scrupolo polemico o di denuncia che, se indissolubilmente legato alla Bucarest comunista, avrebbe portato la pellicola forse a parlare più ‘politicamente’ e meno universalmente. In realtà poi, si sa, ‘politico’ non può non dirsi se al centro vi è una questione etica. Qui si tratta di tre piuttosto che di quattro mesi, di aborto piuttosto che di omicidio. Ma Gabita non sa, non vuole sapere, crede che mentire ‘sia meglio’; così si ‘inventa’ una sorella (in realtà l’amica Otilia), dice della gravidanza di soli due mesi, non conferma la prenotazione all’albergo, non si presenta personalmente all’incontro con il Dr. Bebe…insomma è quasi una protagonista ‘assente’. Il carattere ‘debole’ di Gabita sotto il peso di una responsabilità grande come quella di vita o di morte sembra scomparire per fare di Gabita 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni solo quel filo di voce che nella versione italiana va a marcare decisamente l’ ‘inconsistenza’ del personaggio. Un ventre vuoto forse è proprio la reale e simbolica caratteristica di Gabita, vuoto perché affamato, vuoto perché senza vita. La fame sarà saziata (o almeno si tenterà di saziarla) solo alla fine, nella scena conclusiva. Peccato che tutto quello che arriva sul piatto dal menù dell’albergo è… carne, carne di diversi tipi, ma solo carne. Gabita sa cos’è stato della ‘sua carne’... indugia a leggere il menù celando il piatto alla vista, Otilia, seduta di fronte, ha appena gettato il feto avvolto nell’asciugamano giù, nello scarico dell’immondizia, dai piani alti di un edificio e non sa che dire al cameriere se non…“per ora solo un bicchiere di acqua”. Tutta la corsa senza un ‘perché’ della giornata si arresta… l’amicizia durerà se il silenzio rimarrà su questa, ma l’inevitabilità della scelta non può concedere ancora un ‘freddo’ e cieco muoversi davanti a ciò che non ha più vita.
La regia sa seguire con abilità la crudezza della storia. Perlopiù girato con camera a mano, Mungiu sceglie di rispettare l’immediatezza di uno stile ‘lineare’, asciutto in cui il piano sequenza e la camera fissa sanno giocare perfettamente con l’emotività dello spettatore. La mdp a mano più volte dietro le spalle di Otilia mentre cammina, la macchina fissa per la sequenza della cena a casa dei genitori del ragazzo di Otilia e poi su Otilia e il ragazzo mentre il problema contingente dell’aborto dell’amica porta il dialogo, forse l’unico del genere, a interrogarsi sul loro rapporto di coppia. E infine, la mdp fissa sul feto morto posato a terra, su un asciugamano bianco, sono solo alcune delle sequenze in cui la tensione è 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni interamente raggiunta all’interno dell’inquadratura (semmai, da notare, è l’importanza dell’azione e voce fuori campo. Spesso l’immagine taglia l’azione parlata fuori campo -a tal proposito valga l’esempio della cena sopra citata- per tenere al centro quei particolari funzionali al crescendo della tensione -per questo si vuole ricordare l’immagine della mani del Dr. Bebe mentre prepara il necessario all’ ‘operazione’). Ancora un aspetto a sottolineare l’essenzialità della regia è la scelta di non accompagnare le immagini con musiche. Sono solo i rumori ‘veri’, diegetici, primo fra tutti quello dell’acqua, a saper creare qui i toni decisi della tragedia. Dunque, non una presa di posizione del regista di fronte alla questione dell’aborto, nemmeno l’intento di ‘colpire’ un Paese e le sue leggi, piuttosto uno sguardo disincantato verso gli ignobili compromessi che vorrebbero saper essere l’unico rimedio agli ‘errori’.