
Non c’è una spiegazione razionale per l’attrazione tra un uomo e una donna. Né per il sentimento che ci spinge ad andare
 oltre i confini del nostro colore epidermico. Nadine e Carlo sovrappongono i propri pensieri poco dopo essersi scritti 
reciprocamente che è meglio lasciarsi, perché si è troppo 
diversi e la loro relazione non potrebbe mai durare. Ma la
 carica di quell’unione, così inattesa, esplosiva ed osteggiata, non può fermarsi davanti al pregiudizio: i due protagonisti
 non si sono scambiati soltanto la pelle e cercati con tenerezza sin dal loro primo incontro; sono davvero diventati l’uno
 il fulcro della vita dell’altro. Anche se continuano ad essere, sia per Elena che per Bertrand, i rispettivi coniugi,
 l’unico punto di riferimento affettivo.
Nel film di Cristina Comencini è protagonista il senso di bipolarità: tra uomo e donna, prima ancora che tra “bianco” e
 “nero”. Ci sono tre coppie, quasi quattro: Elena e Carlo, Nadine e Bertrand, gli incontenibili genitori di Elena e la
 pacata madre di Carlo, ormai vedova ma accompagnata dalla presenza ancor viva del marito collezionista di almanacchi del
 calcio. Ed i pensieri, le teorie, i modi di vivere degli uni si incrociano, scontrano, specchiano con quelli altrui. Nella
 lunga ed articolata scena della festa di compleanno di Giovanna si esprimono tutte le potenzialità deleterie del
 pregiudizio razziale tra i protagonisti: l’arrivo di Nadine e dei due figlioletti scatena curiosità, stupore, invidia e
 mediocrità varie. Le modalità registiche non saranno vivide come quelle di Spike Lee, ma è pur vero che ogni inquadratura
 che mostra il tentativo imbarazzato di Elena e Carlo per far sentire la donna nera “a suo agio” lascia nello spettatore una
 chiara amarezza. 
Seguendo le traiettorie dei personaggi all’interno delle stanze di quella grande casa borghese, scopriamo che la madre di
 Elena cova da sempre un sentimento di rabbia impotente misto a bruciante invidia per le donne di colore, soprattutto perché
 attribuisce loro una fisicità prorompente colpevole di aver causato una clamorosa sbandata del coniuge per una certa
 Maramba durante un viaggio in Africa. La donna fissa implacabile Nadine e pensa solo al suo inarrivabile “sedere a
 mandolino”… 

Dal canto suo il marito è a dir poco galvanizzato alla vista della bella ospite e cerca in tutti i modi di tirarla in
 disparte per raccontarle le sue patetiche avventure, non risparmiandole uscite infelici come: “… E Maramba mi disse… Non
 sono mai stata con un uomo come te, al tuo confronto i negri… impallidiscono!” 
La figura paterna riveste un ruolo molto importante nella vicenda, in quanto successivamente veniamo a sapere che Elena
 ricollega la nascita stessa del suo interesse per l’Africa ai ricordi di bambina, quando seguiva il padre nei suoi viaggi.
 E da bambina non capiva quanto fossero bassi gli istinti di quell’uomo, che era “razzista senza sapere di esserlo”, spinto
 solo dall’attrazione sessuale verso le ragazze di colore, come un vero colonizzatore occidentale.
Elena riflette su tutto questo con Bertrand, il suo collega di lavoro alla Fondazione. Senegalese come Nadine e, soprattutto,
 marito di quest’ultima. Sono lì, al bancone di un bar; un uomo e una donna traditi a pensare che in effetti, dopo anni di
 lavoro, non erano mai usciti insieme né si erano soffermati sulla loro amicizia fuori dall’orario d’ufficio. Ma dedicarsi,
 seppur con passione, a raccogliere fondi per l’Africa e cercare di sensibilizzare la gente ai dolorosi problemi dei neri è
 diverso dal vivere l’integrazione razziale in prima persona, farla entrare nella propria quotidianità. 
 
Perché forse in fondo, potendo scegliere, preferiamo circondarci di amici bianchi. E rischiamo come Elena di somigliare un 
po’, anche non volendo, alla nostra madre frustrata che afferma: “… Questi vengono e ti portano via la Barbie… e anche il
 marito!” 
La relazione extraconiugale di Nadine e Carlo è ormai di dominio pubblico: la regista sottolinea con efficacia le rispettive
 isterie e la radicalità del pregiudizio, che appartiene ai neri come ai bianchi. Sono pensieri e frasi colorite e talora
 brutali: la sorella di Nadine, che è la prima persona con cui ella si confida, esclama subito: “Portarsi in casa un uomo
 bianco… Non esiste!” e prova autentico orrore al pensiero del capello biondo trovato sul divano di casa, ove il marito è
 solito portare le sue “amichette”. E’ totalmente impensabile per lei, moglie nera, che il suo uomo nero possa mai preferire

 una bianca. Dal canto suo il marito di lei è sinceramente scandalizzato dalla relazione di Nadine con il bianco Carlo, e va
 persino a malmenarlo per difendere l’onore di Bertrand e di tutti i fratelli neri traditi nell’orgoglio. Da ultimo, la
 ragazza nera coinquilina di Nadine nello stabile di Piazza Vittorio, brutalmente liquida così la domanda sulla fedeltà dei
 “fidanzati italiani”: “… Vogliono solo inzuppare il loro cannolo bianco nel caffè… poi ti mollano!” 
Ritorna con prepotenza lo stereotipo del desiderio represso dell’uomo bianco di poter possedere la “Maramba” di turno,
 avviluppato dal senso dell’esotico, del proibito, del diverso. Il collega di Carlo al negozio di computer si riduce
 addirittura a guardare su internet filmati un po’ hard di ragazze nere che invitano a lasciarsi andare al grido di “Once
 you go black, you never come back…” 
Forse in 
Bianco e nero questo netto bipolarismo, del colore epidermico, degli istinti, del titolo stesso, può 
sembrare un po’ enfatizzato. Tuttavia la Comencini non pare essere venuta meno allo scopo del film: raccontare per immagini
 il tema dell’integrazione razziale inserendolo in un contesto nostrano fatto di situazioni ed interpreti verosimili. E’ una
 commedia ma le numerose parentesi in cui i comportamenti mediocri o imbarazzati dei personaggi strappano un sorriso allo
 spettatore non sono mai fine a se stesse. 
Chissà se esiste davvero quella “Jungle Fever”, quel desiderio sessuale improvviso ed incontrollabile di un “nero” per la
 “carne bianca”. Un’opera prorompente, personale, dai toni forti è il film dal titolo omonimo di Spike Lee, che non si
 sottrae alla messa in scena dell’istinto, quasi animalesco, che stringe i corpi di Angie e Flipper, i due protagonisti 
inversamente speculari per colore della pelle e genere a Carlo e Nadine. Da sottolineare come l’idea germinale per il film 
di Spike Lee nacque ripensando al caso realmente accaduto di Yusef Hawkins, un giovane afro-americano che da Brooklyn si era
 recato nel quartiere di Bensonhurst in cerca di un’auto usata. Accadde che, per una fatale coincidenza, una ragazza che
 stava litigando con il proprio fidanzato italo-americano, gli disse: “Ti lascio, ho una nuova storia con un nero che sta
 venendo proprio adesso a prendermi…” e Yusef rimase vittima casuale dell’odio cieco del proiettile sparato dagli amici del
 ragazzo bianco. 
Come avrà modo di commentare lo stesso regista, pensando alla scelta cinematografica di girare il film nel bipolarismo 
infuocato dei due quartieri di Harlem e Bensonhurst: “… La gente può dire quello che gli pare, ma quando abbiamo girato il
 film, nel 1990, davvero non era pensabile che una ragazza italiana portasse a casa un ragazzo nero!” 
Il senso della pochezza umana di fronte al 
diverso è (e forse sempre sarà) lo stesso. 
Senza tempo, nome né luogo…