FUORISCHERMO

 

SORRISI E FERITE
DALL'ULTIMO CINEMA ITALIANO
Zanasi e Molaioli promossi a pieni voti a Venezia.
Ma il cinema italiano è davvero così nascosto come si vuole far credere?
Oppure è lo sguardo dello spettatore a farsi sempre più pigro?
Nessuna qualità agli eroi Il cinema made in Italy visto a Venezia ha lasciato diverse perplessità ma anche alcune note liete. Non si possono fare paragoni con la Mostra dello scorso anno, dove erano presenti in concorso uno di casa come Amelio e l’outsider Crialese, ma il rischio corso da Muller quest’anno, proponendo autori giovani (non alle prime armi) non ha portato i frutti che qualcuno sperava. Non c’è tutti gli anni un Nuovomondo che emoziona, e di questo bisogna farsene una ragione. E infatti. I tre italiani in concorso, Franchi, Porporati, Marra, hanno scelto, quasi di comune accordo, una linea tematica che sposa l’attualità, accantonando, per il momento, la fantasia.
Franchi, tutto d’un pezzo, rigoroso e quasi ruvido, torna al cinema dopo l’ottimo esordio di La Spettatrice con Nessuna qualità agli eroi provando a disegnare l’Italia dal punto di vista di una spirale ipnotica. I rapporti padre/figlio, il significato della creazione, le relazioni fredde, il formalismo come segno del distacco sono i cardini su cui ruota il progetto del regista. Atmosfere gelide, sguardi cupi, luoghi chiusi e opprimenti, sono gli sfondi su cui si muove la vicenda. Franchi invita lo spettatore in un vortice psicosessuale senza riuscire fino in fondo a specchiarsi con la realtà. Il suo percorso prende le forme presuntuose e un pò pretestuose di chi vuole teorizzare senza andare a colpire le emozioni dello spettatore. Un linguaggio duro e aspro che comunica poco e che resta limitato nelle prove d’attore (a tratti Germano riesce ad esprimere qualcosa).
Porporati, romanziere, sceneggiatore di Gianni Amelio per L’America e poi regista esordiente nel 2001 con Il dolce e l’amaro Sole negli occhi, si mette per la seconda volta dietro la macchina da presa per raccontare l’Italia di un tempo, fondamenta della nostra attualità. Sfruttando la vicenda del mafioso pentito Saro Scordia, Porporati prova ad indagare le ragioni che spingono l’uomo al male, lontano dal bene e dalla famiglia che sembra essere il punto d’arrivo necessario per la salvezza. Costruito senza troppi fronzoli, Il dolce e l’amaro scorre liscio e mette in mostra tutta la buona volontà di chi individua il male per poi evitarlo e metterlo da parte. Il film offre anche diverse letture parallele: dal gioco dei punti di vista dei personaggi (a chi non è mai capitato di guardare la vita con gli occhi degli altri?), agli accostamenti cromatici di sangue e pomodoro (sia nella scena dell’uccisione dei bambini, sia nella scena del “battesimo” a Cosa Nostra). Si legge l’entusiasmo negli occhi di Lo Cascio/Saro quando arriva l’amore e l’angoscia quando si sceglie la carriera, la posizione sociale, l’immagine e l’apparenza. E proprio su queste doppie coordinate di finzione e realtà, apparenza e concretezza, si può individuare il messaggio propositivo e coraggioso del finale, dal punto di vista emotivo molto coinvolgente ma anche simbolicamente esaustivo.
Chi invece racconta l’Italia di oggi con coraggio e onestà intellettuale è Marra, che torna alla fiction (intesa come finzione e non come prodotto televisivo) dopo il pungente doc L’udienza è aperta. L’ora di punta è un film che racconta l’origine della corruzione, il suo evolversi e il suo agiarsi negli abiti comodi italiani, dal punto di vista di chi la corruzione l’ha conosicuta per combatterla ma ha scelto di sposarla come stile di vita, o, addirittura, come L’ora di punta vocazione. Il gesto, simbolico, della consegna dell’anello alle due donne è la sintesi migliore che permette al personaggi di Filippo di compiere il suo percorso definitivo, cioè la realizzazione dello squallore. Non esiste il bene, o se esiste, non prende forma. Un atto d’accusa per niente ipocrita, ritenuto di bassa qualità, ma forse soprattutto scomodo per chi, guardandandolo si è sentito chiamato in causa.
E poi c’è chi prima di guardare all’Italia si guarda un pò troppo addosso come Sabina Guzzanti, che in Le ragioni dell’aragosta preferisce la ruffianeria ai graffi e alle ustioni (che comunque sarebbe in grado di dare) senza raccontare davvero che cos’è diventata l’Italia. C’è stato chi ha scelto l’opzione sperimentale come Salvatore Maira che nel suo Valzer ambisce a raccontare tutto in pianosequenza, oppure chi come Pietro Marcello che in Il passaggio della linea racconta l’evoluzione dello spazio e del tempo dal punto di vista di chi sta dietro il finestrino di un treno.
Eppure ciò che più ha colpito, non è stata la realtà ma la fantasia di chi ha scelto di confrontarsi con la finzione cinematografica. Gianni Zanasi con Non Pensarci è destinato a diventare presto un fenomento generazionale, merito soprattutto della forza trascinante di Mastandrea, cult, e sopratutto un esempio di cinema impegnato, divertente e riflessivo. Un elogio all’assurdità delle dinamiche familiari, alle sue contraddizioni, ma anche un atto d’amore alla commedia italiana, che qui sembra finalmente ritrovata. L’altro regista che ha voluto fortemente mettere in evidenza sia La ragazza del lago la capacità attoriale che la forza della macchina cinema è stato Andrea Molaioli, che nonostante la banalità apparente del terreno calpestato, riesce a dirigire con freschezza un film sull’Italia di oggi, quella di provincia e sperduta tra le montagne, senza smarrire lo sguardo su ciò che conta: il gioco degli incastri in cui l’ispettore Servillo è coinvolto. La ragazza del lago in apparenza può essere scambiato per il pilot di una nuova serie televisiva, eppure scardina con intelligenza questo luogo comune, mostrando le origini del poliziesco, che come sempre, non perde l’attenzione verso l’uomo.
Diverse ferite, alcuni sorrisi che fanno sperare e una considerazione finale. La necessità di scoprire fino in fondo quale direzione stia prendendo il cinema italiano non è argomento che interessa a tutti. Ed è giusto che sia così. Ciò che però interessa agli spettatori, cioè entrare in film nuovi, interessanti, coraggiosi e stimolanti, può essere ancora salvaguardato dagli spettatori stessi semplicemente (o almeno, questo deve essere il primo passo) non cadendo nel tranello che l’informazione più superficiale continua a testimoniare e promuovere. Il cinema italiano esiste. Bisogna cercarlo con il lanternino, ma esiste. Pensate ad autori come Marengo (Notturno Bus), Dritti (Il vento fa il suo giro), Reggiani (L’estate di mio fratello), Lucchetti (Mio fratello è figlio unico), Spada (Come l’ombra), Moroni (Le ferie di Licu), Scimeca (Rosso Malpelo), Bortone (Rosso come il cielo), Dordit (Apnea) , solo per citare gli ultimi esempi della stagione. E’ un cinema civile, impegnato, a tratti neorealista, a tratti surreale. Comunque un cinema povero, ma non di idee. E la colpa più grave, la responsabilità maggiore, di produttori e distributori sta proprio nel totale sfruttamento della mancanza di curiosità dello spettatore italiano ad andare oltre. A cercare di non accontentarsi. Uno spettatore che, come sempre e da sempre, può dire la sua, accettando (non commiserando) questo cinema italiano. Innanzitutto per il ruolo (momentaneo?) di gregario o non-protagonista della scena internazionale.