
Guardando 
Un'altra giovinezza, ritorno alla regia di Francis Coppola dopo dieci anni, sorgono spontanee una serie di
 domande e qualche considerazione sul regista italoamericano. O, per meglio dire, è soprattutto uno l'interrogativo: Coppola
 può essere annoverato tra i grandi registi della storia del cinema? Al lettore la domanda sembrerà retorica, e in effetti
 la risposta è forse già contenuta nel titolo di questo pezzo. Ma l'impressione, oggi, è che Francis Coppola sia stato quasi
 prodotto (anzi: il miglior prodotto) dagli anni Settanta, anziché il contrario. In un decennio tra i migliori del cinema
 americano, Coppola è stato - con Robert Altman, un altro regista che dopo avrebbe faticato non poco a ripetersi a
 
quei livelli - uno dei suoi massimi interpreti. Come altro si potrebbe infatti altrimenti rubricare (parola
 terribile, se volete, ma tant'è) un regista di tale altezza? Guardando i titoli, i consuntivi si tirano infatti da soli:
 
Il Padrino (1972), 
La conversazione (1974), 
Il Padrino - Parte II (1974), 
Apocalipse Now (1979).
 Basterebbe uno solo di questi film a far entrare il suo autore di diritto nella storia di questo decennio, ma con quattro
 si entra di diritto nella storia del cinema moderno. Una saga - quella del 
Padrino - che mescola epopea gangster in
 chiave mafiosa, racconto popolare e grande cinema dove il 
sequel - fatto rarissimo - è quasi più bello
 dell'originale (quantomeno più cupo, espressionista, 
coraggioso). Un'opera minimalista e verticale - 
La conversazione - sulla paranoia post Watergate, insinuante e inquietante, uno dei primi film della modernità in 
cui si parla di 
sound design (impossibile dimenticare la colonna sonora, meglio la rumoristica, orchestrata da Walter
 Murch), che fa letteralmente a pezzi i pur godibili tentativi posteriori sull'argomento (
Blow Out di Brian De
 Palma). E poi l'
assoluto di 
Apocalipse Now, film giustamente leggendario, dove Coppola rischia carriera e
 vita privata per firmare un'opera folgorante e apocalittica, visionaria e indimenticabile, che solo il cinema più ispirato
 sa offrire. E dopo? Tre esperimenti sull'orlo del manierismo: 
Un sogno lungo un giorno (1982), ambizioso musical che
 fece fallire la Zoetrope, la casa di produzione del regista; più il dittico formato da 
I ragazzi della 56a strada e

 da 
Rusty il selvaggio (ambedue del 1983, quest'ultimo girato in un espressionistico bianco & nero talvolta un po'
 sopra le righe). Un film raffinato ed estetizzante (
Cotton Club, 1984). Due opere intimistiche - 
Peggy Sue si è
 sposata (1986) e 
Giardini di pietra (1987), il primo sulle amarezze dell'età adulta, il secondo sulle vittime
 del Vietnam - che faticano (soprattutto la prima) a lasciare il segno. E un lampo: 
Tucker (1988), con cui si chiude
 la produzione di un decennio dove si fa fatica a riconoscere il cineasta coraggioso e sperimentale di
 
La Conversazione e 
Apocalipse Now. Gli anni Novanta sono ancora più interlocutori: 
Il Padrino -
 Parte III (1990) non è all'altezza dei suoi illustri predecessori, 
Jack (1996) è un terribile flop, e
 l'
Uomo della pioggia (1997) un film di mestiere. Si salva solo la personale e spettacolare interpretazione del
 
Dracula di Bram Stoker (1992). Dov'è finito il grande Francis Ford? 
E ora 
Un'altra giovinezza. Ma, dopo dieci anni di silenzio, il "rientro" di Coppola non ha nulla a che spartire -
 ed era più che lecito aspettarselo - con i "grandi ritorni" dei maestri (un esempio su tutti? Stanley Kubrick,
 naturalmente). Il nuovo film è un 
pastiche manieristico e ambizioso, che mescola generi e stili senza estro e
 originalità: ora è un 
pamphlet filosofico, ora un 
thriller spionistico alla Eric Ambler, ora un'allegoria
 fantastica sulla vecchiaia, il tempo e l'amore, ora un 
road movie misterico. Tante allegorie (il fulmine che 
squarcia il destino, il ritorno al passato, le lingue morte), tante contaminazioni (le 
Upanishad, 
Il ritratto di
 Dorian Gray, l'eterno ritorno, il dualismo), qualche momento imbarazzante (le reincarnazioni di Veronica Bühler, la
 rappresentazione del doppio, la simbologia delle rose), molto stile. Coppola accumula ma non orienta, si dice soddisfatto
 di essere tornato alle produzioni indipendenti ma non graffia come un tempo, e l'aria che vi si respira è un po' 
démodé e classicheggiante. Un film certo onesto, anche sicero, ma irrimediabilmente manieristico, a volte noioso, un

 guazzabuglio di temi e strategie che non trova il bandolo della matassa, un esercizio di stile, perfetto nella tecnica
 quanto sterile nel pathos. E non basta a salvarlo un Tim Roth semplicemente superlativo.
Che fine ha fatto Francis Coppola? E' diventato un regista "average" che si farebbe fatica a riconoscere tra i grandi di
 oggi e del recente passato. E' stato il frutto più bello degli anni Settanta (ma forse è proprio colpa loro: ci hanno
 regalato il miglior Robert Altman, il miglior Michael Cimino, il miglior Arthur Penn, il miglior Martin Scorsese, il
 miglior Sam Peckinpah, il miglior Bob Rafelson, il miglior Steven Spielberg, il miglior George Lucas, il miglior Sidney
 Pollack…) ma non ha saputo rinnovare le proprie forme espressive, dando continuità e nuovo spessore alle proprie fantasie
 filmiche.