
Succede a volte di ritrovarsi in una specie di ‘limbo’ in cui non si sa bene se il film ci è ‘piaciuto’ o no. Se ‘piacere’ è
 il verbo più abitualmente legato al dopo-film, da sempre ogni discorso critico vive nel e del ‘dilemma’ fra gusto personale
 (piacere) e metodo (‘scientificità’). L’esperienza comunque ci insegna che ogni film, di volta in volta, ci suggerisce come
 sentire tale ‘dilemma’. 
 
Istintivamente, subito ‘al dunque’ di un gusto personale, de 
Il buio nell’anima direi: un film di poco interesse. Si
 lascia vedere, ma se non lo si vede (vorrei sbilanciarmi, “è come averlo visto”, ma forse sarei troppo spietata)… non si
 perde nulla. Se si tratta di bocciare o salvare un film (esagerando ovviamente i toni dei verbi), è vero, guardiamo alla
 pellicola stessa, ma, nello stesso tempo, possiamo adottare lo sguardo di chi qualcosa dello stesso regista già conosce.
 Il tema dell’ambiguità, di una linea liminale, sia essa geo-politica, socio-culturale, etico-estetica, religiosa, morale o
 sessuale, di un 
trans  come passaggio e cambiamento, come ‘anormalità’ e ‘ribellione’ è la colonna (im)portante del
 cinema dell’irlandese Neil Jordan (per citare i titoli più noti, 
La Moglie del soldato, Intervista col vampiro, Michael
 Collins, Fine di una storia, In Dreams  e l’ultimo 
Breakfast on Pluto). Attento a raccontare storie al (o di)
 confine, in cui il dualismo amore-odio rimane la rivisitazione più cara, Jordan sa coniare bene i ‘suoi’ personaggi
 tormentati, al limite del ‘normale’, ossessionati dalle proprie paure, dai propri fantasmi e incubi, ‘ingiustamente’
 privati della libertà, qualsiasi essa sia. Anche questa volta, Jordan non ‘sbaglia’ il personaggio. La Erica/Foster rimane
 in ogni caso uno dei (pochi) punti forte del film, bellezza o bravura a discrezione di ciascuno. 
Se il ‘colpo di fulmine’ per questa volta ha fallito (almeno con me), certo non tutto va ‘bocciato’.
 
Certamente per la colonna sonora un punto a favore a 
Il buio nell’anima  è dovuto. Ineccepibile l’uso della musica.
 Affidata a Dario Marianelli (già autore delle musiche di 
 Orgoglio e Pregiudizio  (2005) e di 
Espiazione 
 entrambi di Joe Wright) la colonna sonora è davvero la ‘lingua’ che più efficacemente riesce a raccontare il dramma di

 Erica, il suo cambiamento, la ‘luce’ prima il ‘buio’ poi. I motivi musicali accompagnano e riflettono in note la tensione
 delle immagini, costruendo un mondo sonoro ‘specchio’ dell’anima (tutta, non solo della parte ‘buia’) umana. Musica
 originale quella di Marianelli, non originale ma ugualmente di alto livello è la canzone dolceamara, Answer, di Sarah
 McLachlan, già presente nell’album 
Afterglow del 2003. (Forse a qualcuno il nome di Sarah McLachlan è già noto e,
 se non il nome, più facilmente la sua canzone 
Angel -inclusa nell’album 
Surfacing del 1997 e poi più vote
 ripresa da televisione e cinema- presente nella colonna sonora di 
City of Angel (1998) di Brad Silberling con Meg
 Ryan e Nicolas Cage). 
Avvicinandosi, però, al film, al suo contenuto e alla sua forma, le cose cambiano. Il tema centrale è il cambiamento, il
 diventare ‘altro’ da se, il fare i conti con una violenza che tira fuori il nostro ‘io’ sconosciuto, l’odiare qualcuno
 perché ci fa conoscere l’ ‘estraneo’ cattivo che è latente in noi…insomma, un tema ‘alto’, certo. Ma l’intento non basta.
 In primo luogo, un’occhiata al titolo originale e alla sua traduzione italiana suggerisce, se non il capovolgimento di
 prospettiva, almeno una chiara ‘rilettura’ della storia, o meglio, del personaggio protagonista, Erica Bain (Jodie Foster).
 Erica è una conduttrice radiofonica (
Girovagare è ciò che legge agli ascoltatori) e il rapporto di Erica con la
 città, altro tema ‘alto’, altrettanto centrale nel film, è raccontato fin dai primi minuti della storia, quando un
 accavallarsi di immagini di New York accompagnate dalla parole fuori campo di Erica già annunciano quel senso di
 disorientamento poi, traumaticamente, condotto all’esasperazione. 
Dall’America all’Italia, Erica lascia al ‘buio’ lo spazio dell’originale ‘coraggio’. Inutile qui dilungarsi per dire quanto
 un titolo ‘infedelmente’ tradotto possa ‘ingannare’ lo spirito originale (e spesso ben occultarlo e… difficilmente senza
 ragioni ‘di distribuzione’ -mettiamola così- ben studiate). Comunque, che nasca dal buio o dal coraggio, la storia va
 avanti da se (...e questo non è già un possibile punto debole?) nell’inconsistenza dei troppi 
cliché di supporto

 all’azione. Una vita ‘normale’, una relazione felice e prossima al matrimonio, un lavoro ‘sicuro’, una bella ragazza: tutto
 questo spezzato da un’aggressione in cui il fidanzato David (Naveen Andrews - Sayid nel telefilm 
Lost) rimane ucciso
 mentre Erica, dopo tre settimane di coma può dirsi ‘salva’. Ma ritornare in vita non significa riprendersi la stessa vita.
 Erica viene a sapere del funerale di David mentre, a casa, una canzone alla radio è facile invito a lasciarsi al ricordo
 nostalgico e doloroso insieme. E qui si coglie l’occasione per un breve inciso sulle soluzioni narrative, talvolta adottate
 poco felicemente. Presente e passato e in mezzo un ‘taglio’ netto, questo il nocciolo, in pochissime parole, della storia.
 Il regista sceglie di raccontare il ricordo attraverso il montaggio alternato sfruttando il suo codice narrativo lungo la
 dimensione temporale e nell’opzione del contrasto. Il passato è l’amore condiviso, il presente il dolore nella solitudine.
 Già questa soluzione tecnico-narrativo era stata proposta qualche immagine innanzi e sfruttata sempre per significare la
 stessa dicotomia, estremizzandone anzi i toni del presente che non è quello della solitudine a casa ma quello 
dell’incoscienza del coma al pronto soccorso. Cosa ‘funziona’ e cosa invece potrebbe ‘infastidire’? Forse è inutile qui
 suggerirlo, se non procedendo per qualche riga ancora e considerare il dilemma non su un (o due, che si voglia) montaggio
 alternato ma sull’intero film (nei limiti del possibile). 
Riprendendo la storia, Erica repentinamente cambia. Le basta una pistola tra le mani per sfogare tutto l’odio e la violenza
 repressi e trasformarsi da placida e sensibile ragazza a ‘vendicatrice’ di tutti i soprusi che, da quel momento, nelle
 strade (negozi o metropolitane che siano) di New York, la avvicinano attraverso il terrore e la paura prima, la rabbia e 
l’odio poi. 
È in un negozio di alimentari quando per la prima volta si ritrova ad uccidere un uomo (a sua volta appena omicida). Non
 voleva? ‘Colpa’ del cellulare che inopportunamente suona mettendole il teppista ‘contro’? Poco importa, Erica spara.
 Tiratrice inesperta, ma (verosimilmente?) accortissima omicida tanto da non dimenticare di estrarre, con la mano inguantata

 nella manica, il VHS del registrato della videosorveglianza. Ecco che nasce (un po’così, un po’ per caso un po’ ‘per forza’
 -per forza nel copione, per  la ‘forza’ dell’azione- ma impeccabile impenitente fin da allora) la Erica Bain ‘cattiva’,
 quella che dovrebbe essere ‘coraggiosa’ e che invece, nelle nostre sale, di coraggio(so) ben poco si respira. Erica agisce
 sotto l’impulso di una coazione a ripetere senza introspezione, o quasi, perché quella che c’è non basta, rimane una pura
 ‘presa di coscienza’ su un dato di fatto, ma…il fatto si ripete, la coscienza non ‘si sviluppa’, la ‘giustizia-punizione’
 si reitera, ma il ‘senso di colpa’ non viene rivisitato, diventa un ‘giustiziere’ della notte senza un reale senso della
 giustizia da seguire, una ‘ribelle’ che usa violenza cieca contro violenza cieca o, forse meglio, una ‘vittima’ accecata
 dalla violenza che non sa più distinguere dove la violenza cieca di New York sa arrivare. E infatti, non è Erica stessa che
 confessa la consapevolezza che (dal treno) sarebbe potuta scendere mostrando l’arma senza sparare e non l’avrebbero
 toccata? Me Erica, per la seconda volta, si fa omicida. Le sue mani non tremano, nessuno la ferma e, allora, perché
 ‘fermarsi’? Perché violenza a ‘briglia sciolta’ è ciò che Jordan vuole raccontarci del quotidiano vivere newyorkese.
 Intrecciare la storia a New York, ritrarre l’ ‘incapacità’ del corpo di polizia (marcata dalle abbondanti infelicissime
 battute), sfruttare a più riprese quel ‘cinema nel cinema’ (ultimamente sembrerebbe tanto caro ai registi) specchio attuale
 dell’ossesione-perversione del filmare, delle telecamere, dei cellulari, ribadire (fino all’ ‘inflazione’ di significato e
 dunque alla banalità dello stesso) la ‘denuncia’ della violenza in America, della paura che attanaglia e dell’alienazione
 che colpisce e ‘spacca in due’ gli americani…insomma, tutti temi assolutamente importanti, reali, preoccupanti, ma
 insopportabilmente troppo echeggianti nel dramma di Erica. È come se il regista, con una storia già abbondantemente
 drammatica tra le mani, abbia voluto farcire il film di tutti quegli aspetti che ultimamente già molte pellicole
 d’oltreoceano trattano, ma perlopiù su soggetti ben diversi (più o meno approdando a risultati soddisfacenti, è chiaro).

 Quindi, perché ancora New York? Perché proprio di notte a Central Park? Domande forse ‘stupidamente’ provocatorie, ma
 forse sufficienti per lasciare poi intuire a ciascuno dove il film trova la sua prima ‘debolezza’ di un ‘già detto’. 
Ma per scorgere un ‘già detto’, anche senza allargare l’orizzonte ad altre pellicole, sembrerebbe sufficiente fermarsi alle
 parole di Erica. Se, come già si accennava, l’introspezione non è la dimensione privilegiata del film (nonostante magari il
 titolo possa sembrare suggerire), non si può dire che manca totalmente uno sguardo oltre la superficie dell’azione e uno
 spazio dedicato all’Erica ‘riflessiva’. Tuttavia, la riflessione diventa come un ‘disco incantato’, comprensibile e
 condivisibile, credibile e ‘pungente’, convincente e toccante, ma sempre meno significante. La ‘verità’ di Erica continua
 ad essere ribadita ma… non sembra ‘annacquarsi’, infiacchirsi, stridere sempre più con il comportamento? Erica non
 metabolizza il dolore, non elabora il lutto (così si dice, no?), diventa ‘cattiva’, la protagonista negativa, comincia a
 prendere consapevolezza della propria ‘alienzione’, ma continua a ripetere  quanto ‘aliena a se stessa’ è e a comportarsi
 da ‘aliena(ta)’… non c’è in questo qualcosa che ‘stride’? Tema nobile quello dell’ estraneità a se stessi, ma la 
sceneggiatura sembra impantanarsi sempre più in considerazioni tanto vere quanto (ormai) banali e la regia adagiarsi sui
 
clichè della narrazione cinematografica (montaggio alternato, voce off, ‘metacinema’, mdp addosso a Erica/Jodie con
 inquadrature sbieche e luce non a fuoco per connotare il ‘disagio’ per le strade post-trauma, ad esempio) poco abilmente
 sfruttati e sui codici di genere (
Il buio nell’anima: thriller, poliziesco, drammatico…?) infelicemente messi a
 fuoco e perseguiti. 
Comunque, ridondanze a parte, tema ‘grosso’ quello affrontato dall’ultima Jodie Foster. “Morire non è difficile, sono tanti
 i modi di morire, ma tu devi trovare il modo di vivere, questa è la cosa più difficile” e questo è ciò che la vicina di
 casa dice a Erica. E allora, a suo modo, Erica sembra ascoltarla. Ma è difficile e “…quando ami qualcuno (e questo se ne
 va)…perdi un pezzo di te stessa”. Si scopre un estraneo dentro noi stessi, un “irrequieto insonne con le nostre braccia e

 le nostre gambe che continua  a vivere”. Il dolore spacca in due, ci fa sentire come mai avremmo immaginato poter sentire,
 ci presenta ‘un noi’ mai visto…ci mette davanti a uno specchio di cui ancora non conoscevamo l’effetto illuminando appunto,
 per la prima volta, il ‘buio’. In queste considerazioni si potrebbe andare avanti all’infinito, ma non si rischierebbe di
 ‘annoiare’, di ribadire un concetto noto, esperito (ognuno in modo più o meno traumatico), talmente ‘umano’ e ‘importante’
 che dirne troppo lo svilirebbe? È ciò che Jordan rischia (e ‘finisce male’). Tutto ‘vero’ quello che racconta Erica ma
 tutto molto poco giocato sull’originalità. “È orribile avere paura di un luogo tanto amato”, è orribile scoprire che la
 paura dentro di noi (…ma la paura dentro di noi non è di per sé ‘orribile’, credo) si sveglia e ci toglie la libertà
 (…ecco questo è più ‘orribile’) e ci molesta con la sua sete di vendetta. La paura dunque alla base della violenza. Paura,
 violenza, New York… qualcosa di nuovo? La trasmissione radiofonica. Sfogo per Erica, “cura personale” le dice il capo, ma
 basta che la radio accolga gli interventi degli ascoltatori per riempire la sequenza con una ‘cascata’ di prevedibili e
 ‘irritanti’ frasi sulla violenza in America. E poi, ancora l’America: tra le parole di una prostituta ‘salvata’ (“…questa
 è ancora l’America?”), tra la citazione da D.H. Lorence “…nella sua essenza lo spirito americano è…distaccato, assassino”.
 Insomma, non è troppo ‘prepotentemente’ che quest’America ‘in crisi’ risalta sulla ‘crisi’ di Erica? Se il film si ‘salva’
 è perché tutto sommato ‘fa felice’ quell’inconfessabile sogno (di tutti…di molti) di vedere le proprie vendette compiute.
 Onesto in questo e coraggioso il film, si potrebbe dire. Una sorta di ‘inno’ al diritto di aver paura e di ribellarsi a
 questa paura, anche a costo di scoprire l’estraneo (cattivo?) in noi. Sotto questa prospettiva forse Jordan soddisfa il
 pubblico: questa volta non un’eroina dei fumetti ma Jodie Foster a metterci davanti ai nostri desideri proibiti e
 demistificare rabbia e odio repressi. Dire come finisce il film è forse sciocco (se deve’essere questo un thriller), anche 
se è intuibile, tuttavia un’ultima considerazione. Il detective Sean Mercer (interpretato da Terrence Howard già visto in
 
Crash di Haggis), simbolo, insieme al compagno, di un ordine pubblico altrettanto sgangherato e inaffidabile della

 città stessa, penserà lui ad assolvere l’intera storia “…non è mai esistito un vigilante, sono solo tre malviventi che si
 sono fatti fuori tra loro.”, mentre Erica concluderà “…non puoi mai essere la stessa persona nello stesso posto dopo simili
 cose” e si allontana di spalle alla mdp giusto lungo il tunnel dove è nato tutto: tra le due battute (e relative situazioni)
 la sceneggiatura potrebbe non far ‘precipitare’ il finale (qualora l’intero film ancora potesse dirsi ‘in piedi’)?
Dunque un film sul cambiamento, sulla violenza e sulla paura che ci ‘corrompono’, sulle persone e, soprattutto, sui morti
 che ci costringono, in qualche modo, a vivere. Estranei a noi stessi diventiamo, abbandoniamo la persona che abbiamo sempre
 conosciuto (quella che ci ha fatto sempre meno difficoltà conoscere, meglio?) per renderci conto che siamo sempre stati
 anche ‘altro’. Ben venga allora la paura, la ‘ribellione’ e…fin qui allora brava Erica (oserei dire), se non ‘brave’, ma…
 
…occorre davvero ‘spiegare’ questo ‘ma’ dove vuole arrivare?