FUORISCHERMO

 

CINEMA DAL PROFONDO SILENZIO
Saverio Costanzo ritrae il percorso della scelta e della fede attraverso il silenzio. Un codice e un luogo cinematografico dove si trovano le risposte.
Come ricordava anche Ezio Alberione, il silenzio non è tanto l'assenza di suoni, ma la base stessa del suono, del linguaggio, dell'arte.
IN MEMORIA DI ME Penso che esistano due categorie di spettatori scontenti del film “In memoria di me”. Quelli che si aspettavano un film antireligioso, di condanna dei contenuti e dei metodi della formazione dei seminaristi e quelli che invece si aspettavano un film grondante catechesi.
In realtà il film non è nulla di tutto questo, ma è a mio avviso un affresco, potentemente evocativo, di due personali cammini di ricerca, quello del protagonista (Andrea – Hristo Jivkov ) e quello dell’ “antagonista” (Zanna – Filippo Timi).
Il monologo iniziale di Andrea è quello “esemplare” di una vocazione religiosa adulta, di chi cioè ha vissuto “nel mondo” non trovandosene soddisfatto, ma al contrario con un senso di vuoto. É per così dire, una vocazione della mente.
Zanna invece ha una vocazione del cuore, dove col termine cuore intendiamo la casa delle passioni, dell’amore, assimilabile al fuoco che Geremia sente dentro dopo la chiamata del Signore. La scelta assolutamente felice del regista, Saverio Costanzo, è quella di non cadere in un film verboso (tutt’altro), pieno di citazioni. I pochi ed essenziali dialoghi invece servono quasi sempre ad esprimere le idee prima a se stessi e poi all’interlocutore (modalità recitativa espressamente rivendicata dal regista).
La potenza del film sta però in altro. Sta nella rappresentazione per immagini e sottrazioni.
L’immagine totalizzante dell’ambiente. Il corridoio dove si svolge buona parte della “ricerca” dei giovani è allo stesso tempo seminario, caserma, carcere, ospedale.
Non a caso la parte più libera della vita dei protagonisti si svolge di notte, quando le regole (e i controlli) lasciano spazio all’ “io” di ognuno.
IN MEMORIA DI ME La sottrazione del colore. Tranne pochissime scene i colori mostrati sono freddi, a volte fin troppo; anche nella chiesa domina l’ombra, non c’è un raggio che arrivi ad “illuminare”. In questo leggo la stessa finalità dell’ambiente: far abbandonare la personalità di prima e farne acquistare un’altra (sant’Ignazio di Loyola dice che il gesuita deve essere obbediente e malleabile “perinde ac cadaver”).
A questa lividezza cromatica fa da contraltare l’assoluto calore degli sguardi. Andrea sembra avere quello più distaccato, invece ha l’occhio spesso umido, quasi febbricitante della febbre della conoscenza, dell’arrivo a completare un cammino che comunque non sente suo fino in fondo. Zanna ha l’occhio perennemente tormentato di un profeta michelangiolesco, quello di chi reprime dentro di sé l’urlo di ribellione perché non vede ardere nei cuori degli altri quella fiamma che invece brucia incessantemente nel suo.
Da tutto questo non può che discendere anche la diversa scelta dei protagonisti. Con la morte del confratello (amico?) che assisteva, sfogo della sua sovrabbondanza di carità, nulla tiene più Zanna in quell’ambiente: è infatti convinto l’incontro con Dio non sia confinato in quel luogo, ma possa avvenire ovunque lui vada. Andrea invece placa la sua sete di conoscenza capendo che non otterrà tutto subito, ma lasciandosi guidare nel cammino di formazione.
Altra componente importante nella costruzione del film è la musica, quasi sempre classica. Classica come classico (nel senso di uguale a se stesso) è l’ambiente, sono i personaggi e i loro ruoli. A volte la musica riempie i vuoti non solo di parole (durante i momenti in refettorio), ma anche di colore, è l’unico elemento “vivo”. L’unico elemento non classico è il “Kyrie” della Missa Luba che accompagna l’allontanamento di Zanna dal Cupolone. È un altro elemento che testimonia la scelta di Zanna di andare “in direzione opposta” a quella dell’istituzione (nota maliziosa: queste messe caraibiche o sudamericane erano molto rappresentate e suonate in epoca conciliare e immediatamente postconciliare. Personalmente vedo in questa scelta la velata contestazione ad una Chiesa-istituzione – la cupola di san Pietro – che allontana da sé il fermento portato dalla primavera del Concilio).
La cosa che impressiona del film è la sua assoluta non indulgenza verso lo spettatore. Si smonta la curiosità di Andrea verso il legame tra Zanna e un altro seminarista. Zanna rivela al direttore del seminario la sua intenzione di abbandonare (quindi non di fuggire) e la spiegazione di quest’ultimo assume la valenza catartica di purificazione dell’anima. Capisce e assume che il Dio della Congregazione non è il suo Dio, il suo è altrove.
Insieme al mio avviso gia notevole Private, l’inizio della attività registica di Costanzo si connota dunque per una certa scomodità. Scomodità dettata dai temi affrontati e dal modo di realizzare i film. Quasi che non si voglia andare in una direzione di successo “facile” come quello di altri figli di “illustri”. Un affrancamento ad ogni costo dall’ombra paterna.
Dramma palestinese, introspezione religiosa. Ora è annunciata una commedia. Le premesse ci sono tutte, speriamo non diventi un altro D’Alatri.
L'ARTE DEL SILENZIO
Fuorischermo ha raccolto alcuni passi significativi dell'articolo di Ezio Alberione
scritto per la rivista Duellanti, a proposito del ruolo del silenzio nel cinema,
nella vita e nell'arte.
Un frammento, un 'intervallo asonoro nel quale è rinchiuso il senso.
EZIO ALBERIONE
EZIO ALBERIONE Il silenzio - richiamato nel titolo del film di Groning - è la trama su cui si innesta la relazione tra linguaggio, io e mondo. Merleu-Ponty voleva "prendere in considerazione la parola prima che sia pronunciata, sullo sfondo del silenzio che la precede, che non cessa di accompagnarla e senza il quale essa non direbbe nulla", e invitava a rendersi " sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato". Una consapevolezza ben presente ai poeti e ai mistici (Ireneo, un padre della Chiesa, dice che il Figlio, la Parola, esce dal silenzio di Dio).
Solo a partire da queste "fondamenta", è possibile considerare le occorenze fenomenologiche del silenzio. E scoprire che paradossalmente, il silenzioparla con molte voci. Ce n'è uno prezioso (il silenzio è d'oro) e uno che indica penuria (silenzio di tomba). E' afasia e incapacità di intendere ma anche apertura e disponibilità all'ascolto. E' annientamento, negazione (le lingue morte) ma anche tensione, attesa (vedi la suspense silenziosa della ladra Marnie a cui sta per cadere una scarpa dalla tasca o il fonico di Lisbon Story che registra il suono dell'assenza dell'amico). C'è quello passivo (chi tace accossente) e quello attivo, di chi si oppone (Cicerone nella Pro Sestio, parla di tacentes loqui videbantur, persone che nel loro tacere sembravano parlare) o di chi non vuole parlare (No comment). Maggioranze silenziose e minoranze ridotte al silenzio. Reticenze e inaffidabilità.
La sua ambivalenza emerge soprattutto in quei casi in cui nasce come forma (obbligata, costretta, scelta) di rifiuto della convenzione comunicativa per cui costringe a un'esplorazione di diverse modalità di rapporto (al punto che l'handicap - come ci ricorda Nicolas Philibert nel bellissimo Nel paese dei sordi - può rivelarsi un atout). [...]
Non esiste il silenzio, ha detto più volte Cage. Così non esiste uno spazio vuoto. Fin quando un occhio umano guarda, c'è sempre qualcosa da vedere. Guardare una cosa "vuota" è sempre dare, è sempre vedere qualcosa, se non altro gli spettri della propria attesa. Per percepire il pieno bisogna conservare un senso acuto del vuoto che lo delimita; e viceversa, per HARPO MARX percepire il vuoto bisogna come piene altre zone del mondo. In questo senso, la bellezza del mutismo di Harpo Marx si deve in gran parte al suo essere circondato da chiacchieroni sfrenati. Un vuoto genuino, un puro silenzio non sono possibili nè concettualmente nè nella realtà. Almeno per il fatto che l'opera esiste in un mondo contenente molte altre cose, l'artista che crea il silenzio e il vuoto deve produrre qualcosa di dialettico: un vuoto pieno, una vacuità che arricchisca, un silenzio risonante o eloquente.
Nel silenzio e dal silenzio trae origine la possibilità stessa dell'arte. Wassili Kandinsky ha sviluppato la sua rilfessione sull'arte proprio a partire dalla relazione tra silenzio e parola. «Il punto geometrico è il più alto e assolutamente l'unico legame fra silenzio e parola. E perciò il punto geometrico ha trovato la sua forma materiale, in primo luogo nella scrittura - esso appartiene al linguaggio e significa silenzio. Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell'interruzione, del non essere (elemento negativo), e, nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo). [...]»
[...] E forse basta spostarsi un pò sulla sterminata carta del cinema per trovare una cognizione profonda del silenzio. Basta pensare a Bresson (che dichiarò che il cinema sonoro ha inventato il silenzio), a Tarkovskji, Ozu, Dreyer, Antonioni, Kiarostami, De Oliveira, Kitano, Mahkmalbaf, Bartas, ma anche Kubrick, Fellini (il suo ultimo film si chiude proprio con l'invito a fare silenzio), Lynch (Mullholland Drive)... Si tratta di cineasti che lavorano sui confini del filmabile, dell'esprimibile. Stando sul margine, sulla soglia, partecipano di una tensione presente nei percorsi di ricerca dell'estetica contemporanea.

Ad un anno dalla sua scomparsa, è sempre bello ricordare Ezio. Per tante cose.
Matteo Mazza