 Lezioni di volo
Lezioni di volo offre lo spunto per alcune considerazioni sulla figura dell’adolescente raccontata al cinema da due
 donne; Francesca Archibugi, che da sempre dedica il suo cinema ai giovani e Sofia Coppola, che con 
Marie Antoniette
 ha concluso la sua personalissima e intelligente “trilogia”. Mettendo però a confronto le due rispettive ultime opere 
(tematiche affini, generi sessuali dei personaggi diversi), ci si accorge subito che gli esiti appaiono completamente
 divergenti. Infatti, nel cinema di Sofia Coppola emerge una riflessione "alt(r)a" sull'adolescenza, che nei film
 dell'Archibugi sembra mancare. 
Protagonisti in 
Lezioni di volo sono Pollo (Apollonio) e Curry, due ragazzi borghesi di Roma annoiati dalla vita e
 alla ricerca o attesa di qualcosa (“aspetto sempre…sempre qualcosa o qualcuno…ma non arriva niente, nessuno”). Bocciati
 alla maturità, decidono di andare in India, paese d’origine di Curry (adottato ancora neonato da una famiglia italiana) e 
nelle prospettive dei due ragazzi mera occasione turistica di svago. La vacanza si rivelerà invece essere, dopo un primo
 momento di vero e proprio disorientamento (infatti, derubati appena arrivati a destinazione, si perderanno nelle vie della
 capitale), un viaggio di iniziazione e formazione, grazie alla conoscenza di Chiara, ginecologa di una Onlus
 internazionale, che li farà scontrare con una realtà non patinata e altra dalla loro quotidianità fatta di comodità e agi,
 costringendoli a mettersi di fronte a se stessi. Pollo tornerà “svezzato” sessualmente e con la vocazione del medico, 
mentre Curry, alla ricerca della madre naturale, farà ritorno a Roma con la sorellina ritrovata e rimasta orfana. La storia
 del processo d’individuazione di due giovani contemporanei alla ricerca della propria identità è il filo tematico che
 accompagna anche le opere della promettente figlia d’arte di Francis Ford Coppola. 

In effetti, si può dire che tutto il cinema di Sofia Coppola (almeno fin’ora), in modo originale e mai banale, non parli
 d’altro. Una lunga considerazione (probabilmente in parte autobiografica) sullo smarrimento giovanile, parola chiave di
 tutti i suoi lavori. 
Smarrimento topografico (Tokyo per 
Lost in translation e Versailles per 
Marie Antoinette), familiare,
 identitario, sentimentale, esistenziale ed universale, anche se perennemente percepito attraverso gli occhi di ragazze
 alle prese con il passaggio all’età adulta. Infatti, il mondo di dispersione, incomprensione e solitudine, profilato dalla
 giovane autrice, pur prospettandosi come metafora della condizione umana universale, rimane sempre e comunque nella sua
 rappresentazione e raffigurazione narrativa e iconografica un microcosmo virato in rosa, come esplicitato palesemente anche
 a livello cromatico nell’ultimo lungometraggio. L’interesse della regista è evidentemente quello di raccontare il vissuto
 reale, immaginifico, onirico, sentimentale, ideale ed intellettuale di una giovane donna. E ne 
Il giardino delle vergini
 suicide (1999), esordio cinematografico e allo stesso tempo avvio della meditazione che porterà avanti con le opere 
successive, è presente una vera e propria celebrazione del mondo, quel giardino appunto, complesso, segreto e misterioso
 delle vergini. Primo tassello della “trilogia” sullo smarrimento e l’incomunicabilità adolescenziale, racconta la storia 
ambientata negli anni Settanta e culminata in tragedia di cinque ragazzine dai tredici ai diciassette anni, le sorelle
 Lisbon, viste attraverso gli occhi voyeuristici, incantati e totalmente abbacinati di un gruppo di loro coetanei. La

 bellezza e la poesia dell’universo femminile vengono dipinte perfettamente dalla lirica, idilliaca e suggestiva sequenza
 di inquadrature (girate efficacemente 
a ralenti e sapientemente fotografate) che ritraggono queste incantevoli ed
 enigmatiche creature, quasi delle eteree ninfe incarnate (che ricordano le vergini, questa volta inspiegabilmente 
scomparse, di 
Picnic ad Hanging Rock di P. Weir), e dalle parole di sottofondo dei giovanotti innamorati. “Con il 
tempo stavamo imparando a conoscere il loro piccolo mondo… Sentivamo come sia imprigionante la condizione di ragazza, come
 rendeva la mente più attiva e sognante e come alla fine si faceva a capire quali colori andassero bene insieme. Scoprimmo
 che le ragazze in realtà erano donne travestite che capivano l’amore e la morte…Capimmo che sapevano tutto di noi e che
 noi non potevamo comprenderle affatto”. Ma in questo film il viaggio sofferto alla scoperta del proprio IO non si risolve
 e traduce come in 
Lezioni di volo in una ritrovata e un po’ scontata stabilità. Infatti, dopo il suicidio della più
 piccola, incapace di gestire la complessità della sua condizione, oscura e indecifrabile per il mondo adulto (“non hai
 ancora l’età per capire quanto diventi complicata la vita…” – “evidentemente lei non è mai stato una ragazzina di tredici
 anni…”), che sembra negato e inabile a farsene carico, le altre quattro sorelle decideranno di seguirne l’esempio
 attraverso un clamoroso suicidio collettivo, segno di un disagio che non può essere colmato, a causa dell’impossibilità di
 comprensione e quindi di sostegno da parte dei cosiddetti punti di riferimento, per lo più mancanti o inetti. 
Sulla stessa scia del precedente è 
Lost in translation, senz’altro il più riuscito e il più interessante all’interno 
del trinomio, e quello nel quale la riflessione si fa più approfondita. Riconosciamo nella protagonista Charlotte (Scarlett

 Johansson) una “sorella Lisbon cresciuta”, venticinquenne e sposata da due anni con un fotografo che la trascura. In
 soggiorno a Tokyo per aver accompagnato il marito in viaggio per lavoro, smarrita e abbandonata a se stessa, incontra Bob
 Harris (uno straordinario e causticamente surreale Bill Murray), attore cinquantenne in crisi, sul posto per fare da
 testimonial pubblicitario a un quanto mai improbabile (e presumibilmente imbevibile) whiskey giapponese. In quest’opera
 ritroviamo lo smarrimento identitario del personaggio principale; smarrimento che viene intelligentemente metaforizzato
 innanzitutto attraverso un vero e proprio disorientamento geografico, uno sradicamento in una città straniera ed estranea
come Tokyo, frenetica e dispersiva per antonomasia. Charlotte, da poco laureata a Yale in filosofia, “un mestiere che
 fin’ora ha dato più gloria che quattrini”, deve decidere cosa fare della sua vita (“è solo che io non so cosa voglio
 diventare…”), scelta che si innesta all’interno di quella ricerca identitaria tipica della soglia pre-adulta. In preda
 all’angoscia e alla confusione, e sola nonostante la presenza del consorte, troppo indaffarato ed alieno al suo sentire,
 troverà in un’altra anima turbata e nebulosa, qualcuno in grado di comprendere il suo linguaggio. «Un fatto inesplicabile
 e solenne avvenne: ella si fermò a un passo da lui e disse con una voce un po’ sorda: “siamo tutti e due oppressi da una
 pena, forse la stessa, usciamo per una passeggiata”»; così sintetizzerebbe Tommaso Landolfi questa storia. 
Già il titolo originale mostra nell’efficace gioco di parole un possibile compendio del film, poiché la dispersione di
 Charlotte, 
lost a Tokyo e dunque 
in translation (cioè nella traduzione), è una dispersione che sottende uno
 stato di incomunicabilità. Infatti la protagonista non riesce a trovare un interlocutore, cioè qualcuno che condivida il
 suo linguaggio e sim-patizzi (etimologicamente: sentire insieme) con lei, non tanto a causa del limite linguistico (il
 problema non è ovviamente l’idioma di appartenenza), quanto per effetto dell’incapacità e della difficoltà di comunicare
 propria dei personaggi, e quindi in generale dell’uomo. Charlotte tenta di creare e stabilire senza successo un contatto
 prima con il compagno e poi con l’amica Lauren al telefono, tutti e due sordi alle sue parole e addirittura incapaci di
 accorgersi del suo stato d’animo. Perdutasi come un’adulta Alice carrolliana nel labirinto della metropoli, microcosmo 
allegorico della sua esistenza, insonne e pervasa da un senso d’inutilità e di staticità, con un ultimo tentativo disperato
 si affida pateticamente ad un corso zen audio sul fine e il senso della vita. Ma solo l’amore platonico e mai consumato
con un altro corrispondente insonne, anche lui in preda a crisi esistenziale, o, come la chiama lei per sottolineare
 ironicamente la loro differenza anagrafica, alla fatidica crisi di mezza età, riuscirà a farla riemergere dalla voragine
 caotica da cui era stata inghiottita. 

Ultimo capitolo della riflessione è il già accennato in esergo 
Marie Antoinette, opera in cui Sofia Coppola tenta di
 ricostruire, reinterpretandola e personalizzandola (in realtà fa riferimento all’originale teoria del romanzo di Antonia
 Fraser 
Marie Antoinette: The Journey), la vicenda di un’altra adolescente tormentata e senza guida (interpretata
 dalla già vista e fidata Kirsten Dunst), questa volta però settecentesca e principesca. Marie Antoinette, fanciulla regale
 molto più simile a una teenager del ventunesimo secolo, strappata alla famiglia e al suo paese, si ritrova quattordicenne
 nell’ambiente estraneo, ostile, minaccioso e formale di Versailles, catturata dal dedalo infinito e intricato dei fastosi
 cerimoniali di corte e sposata ad un monarca impotente. E’ chiaro che anche nella sua più recente “fatica” il proponimento 
della regista non è rivolto tanto all’ambientazione storica o a un tentativo (seppur basato su fonti ben precise) di
 revisionismo storiografico nei confronti di un personaggio così discusso, quanto ancora una volta alla narrazione e ad una
 considerazione sull’ennesima adolescente smarrita e lost, con l’unica differenza che in questo caso si tratta di una 
sovrana del Settecento. Interpretazione, questa, confermata anche dalle numerose infiltrazioni contemporanee interne al
 film: l’audace e post-cronistica colonna sonora basata su brani del rock New Romantic degli anni ’80, un paio di All Stars
 rosa vaganti nel folle turbinio di organza, tulle e nastri della stanza reale, per non parlare dei divertimenti
 inequivocabimente attuali a cui si dedica la regina. 
Sofia Coppola supera così nel suo ultimo film, altra variazione sul tema ma ancora una volta non ridondante, oltre alle
 barriere spaziali anche quelle temporali, riconsegnandoci nella sua riflessione una figura di giovane donna per certi versi
 universale. E la complessità intensiva ed estensiva (nel senso della varietà mai reiterata) che raggiunge in questa sua
 triplice meditazione cinematografica non è certo paragonabile a quella sviluppata dal cinema di Francesca Archibugi. Un
 cinema che non si prefigge di essere speculazione concettuale e astratta, ma mero specchio della società attuale italiana
 (sempre in riferimento ai giovani), attraverso la costruzione di intrecci e storie che ripropongono spesso situazioni
 stereotipate, accomodanti e concilianti, a cui è estranea invece la poetica della regista statunitense. L’intenzione della
 Archibugi sembra quindi essere rivolta non tanto ad un’indagine o ad una valutazione universale sul mondo dell’infanzia e
 dell’adolescenza contemporanei (senza privilegiare per altro un sesso sull’altro, diversamente da quanto fa la Coppola),
 quanto semplicemente al desiderio di raccontarlo, mostrandone le tappe di formazione; in un modo, appunto, semplice, ma
 assolutamente meno evocativo e brillante.