
Settima opera per Emidio Greco, regista esordiente con 
L’invenzione di Morel nel 1974. Produzione non cospicua dunque,
 ponderata nella quantità e sobria nello stile. Non è un cinema facile, dal significato immediato e dal coinvolgimento
 gratuito. Estendendo la considerazione oltre l’ultimo 
L’uomo privato, si tratta di un fare cinema che tiene come
 prima regola del gioco con lo spettatore stuzzicare l’intelletto, proporre interrogativi, mascherare e smascherare la
 realtà filmica… affascinare con la lentezza della riflessione piuttosto che attraverso l’immediatezza dell’emozione. 
Diplomato al Centro Sperimentale, dove poi, per due anni (1966-1968), insegna regia, firma i primi lavori per la RAI (si 
tratta di programmi culturali, documentari, inchieste) fino al primo lungometraggio. A trentatré anni di distanza esce in
 sala con 
L’uomo privato, presentato in concorso all’ultima Festa di Roma e qui soprannominato ‘film fantasma’. Un
 disappunto generale, più o meno unanime tra la critica accreditata, ha accolto la pellicola come un grande menzogna. Il 
regista sceglie il tema grosso del  ‘privato’ intendendo tale parola in una duplice accezione. Si tratta della dimensione
 privata della vita di un uomo e di come questa dimensione può perdere la sua privatezza. Privato è dunque l’uomo nella sua 
solitudine e intimità, privato diventa poi il protagonista del suo diritto a tali libertà. È un tema importante, ricorrente
 quante volte nella storia del cinema? Innumerevoli e nemmeno nuovo all’interno della filmografia dello stesso regista.
 
…per un inizio

Giusto la prima pellicola, 
L’invenzione di Morel, propone una simile questione. Altro film, tutt’altra storia e
 tutt’altra ambientazione, diverso l’intento altamente differente il risultato, ma la violazione del privato è costante
 comune. Lì, nell’isola di Caponero, lo studioso Morel abusa dell’ingenuità di alcuni amici radunati nell’isola sperduta
 ‘fotografandoli’ per una settimana a loro insaputa. Vale subito una digressione per giustificare quest’ultime virgolette.
 Morel, con l’intenzione di dare eternità ai momenti felici della vita -quali appunto possono essere quelli di vacanza su
 un’isola- ingegna un meccanismo di captazione e registrazione di suoni, immagini, odori, sensazioni tattili e quant’altro 
sia proprio della realtà per proiettare poi tutto ciò che le macchine catturano fino a riprodurre la realtà in modo che
 proiezione e sua vera matrice reale risultano indistinguibili. È un sistema di riproduzione della vita, senza alcuna
 pretesa di crearne altra: la registra e la proietta… eternamente, “…ripetendo uno dopo l’altro i momenti di questa
 settimana e senza poter mai uscire dalla coscienza avuta in ciascuno di essi. In ogni istante della proiezione non ci
 saranno altri ricordi se non quelli che ci furono nell’istante della registrazione e il futuro manterrà così sempre i suoi
 attributi”, dice Morel. Dunque, fotografia sì, ma in questo senso…tridimensionalmente vivo e virtualmente umano. Qui,
 ne 
L’uomo privato, un professore di Diritto cade vittima delle registrazioni di uno studente. Dunque, sempre la
 registrazione come strumento di violazione e sottrazione dell’unicità spazio-temporale della vita di ciascuno e della sua
 irripetibile intimità, sempre il gioco degli opposti (vita e morte, vero e falso, io e tu, privato e pubblico, vedere e
 vedersi...) come asse centrale di entrambi i film, sempre l’isolamento e il distacco dalla realtà dei personaggi, simile
 lo stile registico, totalmente differente il rapporto tra intenzione di partenza e risultato finale. 
…e per il presente.  
Senza indugiare sul primo film, mettiamo a fuoco l’ultimo. Il deserto, il vuoto attorno è ora uno stato d’animo del
 professore. Sempre circondato da studenti, donne, amici gira come un estraneo a tutti e a se stesso. Il protagonista
 (Tommaso Ragno), questo innominato professore di Diritto, guarda il mondo ma non capisce come sentirlo. 

Lo sguardo sempre fisso… esigenze di copione, ordine registico o poca dedizione dell’attore? Ammettiamo pure la prima
 ipotesi, nel migliore dei casi, e la fissità dello sguardo sarebbe funzionale alla descrizione del personaggio. Elegante e
 posato, di successo e buona posizione sociale, schivo e debole insieme al fascino femminile, solitario, distaccato se non
 indifferente, chiuso nel suo stretto rigore e nella sua egoistica razionalità finisce per rimanere vittima non solo dello
 sguardo del ragazzo ma, forse, dello spettatore in sala. Lo stesso Ragno, del suo personaggio dice “…è un uomo che possiede
 tutte le qualità e non ne ha nessuna… Una sfinge. Un punto interrogativo. Per sé e gli altri.”. Distante da tutti come da
 se stesso, sembra fluttuare tra una scena e l’altra senza che vi sia un montaggio capace di salvare la vacuità del
 personaggio. Se è, il professore, un’ anima in balia del proprio guardarsi vivere e se è l’inconsistenza della vita che
 conduce la preoccupazione principale delle immagini, come lasciare a un’infondata e, dunque, narrativamente innocua 
successione di slegate scenette la forza di coinvolgere (razionalmente, se non emotivamente)? Il montaggio è specchio del
 disorientamento del protagonista e dell’uguaglianza informe e insignificante data alla sua, pur varia, vita. Galleggia da
 una parte come dall’altra, attento solo a difendere il suo spazio. Eloquente può essere un particolare. Il professore, a
 Pisa per tenere un seminario, ordina all’ultimo ragazzo (e non a caso è questo l’unico alunno a cui parla) che posa il
 registratore sulla cattedra di spostarlo, ‘più lontano’ dice. Già il nucleo tematico della violazione della giusta distanza
 per mezzo della registrazione è annunciato. Già sull’autore della svolta, nella storia e nella vita del protagonista, si
 pone un’attenzione particolare... ma mai, o meglio, non ancora per rompere l’impenetrabile sistema di certezze del
 professore. 
Greco parla di “virata nel giallo” e per quanto la virata sia infelice e il giallo privo di colore… lasciamo che qui non si
 dica altro per non rendere ancora più inefficace una simile virata. Giallo senza tensione e suspense… solo la pazienza
 dello spettatore di seguire un personaggio sonnambolico, disincantato di fronte alla riproduzione del suo privato, ma

 ancora più estraneo di prima, riesce a gestire le lunghe sequenze tra un non-luogo e l’altro. Due almeno se ne vogliono
 ricordare. La prima, in una festa di studenti, di notte all’aperto, tra musiche assordanti, giocolieri con torce infocate,
 band dal vivo, immagini su uno schermo… il professore che ci fa? Una sterile quanto ‘fastidiosa’ passeggiata per lo
 spettatore, forse. E poi, una seconda, la manifestazione dal titolo “Amico/Nemico” vorrebbe essere un’iniziativa per
 difendere la cultura, a sentire i personaggi, ma per il regista? Ancora un’immagine dell’estraneità del professore alla
 borghesia, alla cerchia di amici? …a tanta retorica e stucchevole artificiosità come non essere estranei? Il problema per
 lo spettatore è però ritrovarsi estranei a tutta la scena, non solo dalla parte del protagonista. Questo rimane un
 fantasma, un alieno, dentro un fasto e una magniloquenza inverosimili ed insieme tutta la sequenza rimane ben oltre
 qualsiasi accettazione, per la sua ragione (inesistente) d’essere nel film e per la sua vuota e assurda pompa. 
Tacendo dunque la “virata” suddetta, si distingue prima e dopo un continuo succedersi di situazioni prive di ogni 
significativo rapporto causa-effetto (…senza con questo voler dire che la relazione causa-effetto sia necessaria sempre e 
comunque la regola necessaria), senza relazione tra loro, pena l’incomprensione, senza interesse in esse, pena la
 disaffezione dalla storia. Insomma, una gratuità di scenette tanto funzionali a rappresentare il distacco del professore,
 il suo rifiuto della realtà e il suo isolamento mentale più che fisico (a parte i momenti sul divano di casa), quanto 
efficienti nel mantenersi estranee allo spettatore stesso. Il tema della fuga della realtà è la colonna portante del film,
 ma le riflessioni che possono avanzare da simile messinscena e le domande che il regista sembra voler suggerire sono
 malamente e, forse, troppo pretenziosamente, affidate alle immagini. 
I dialoghi sono lunghi, estenuanti perché appunto inseriti in contesti autoreferenziali. I quadri entro cui si vorrebbe
 rappresentata la vita del professore sono tanto aneddotici e privati da rimanere frammentari ed inattivi episodi, squarci
 poco accattivanti per mettersi ‘al fianco’ del protagonista. Uno su tutti. Il monologo della giornalista (Vanessa Gravina).

 Una lunga storia nella storia, gratuita e fine se stessa. L’uomo privato poggia sul concatenarsi, anzi sul puro
 giustapporsi, di situazioni ‘campione’ della vita del solitario professore, senza amore per nessuno nonostante frequenti 
donne, amici e… anche un padre, senza passione per la professione nonostante la eserciti, si può dire, con successo. Insegna
 Diritto, ribadisce l’importanza della cultura (“…pace, libertà, uguaglianza hanno una doppia faccia. Una verso il diritto 
una verso la cultura, così il diritto trova alimento. Dunque né Dio né sentimenti popolari nella giurisprudenza, ma diritto
 e cultura”, dice a Pisa), pretende il rispetto (la distanza) e poi… cade vittima proprio tra la gente che decreta il suo
 essere uomo di successo: gli studenti, gli amici, le donne. Ciò che si riesce a capire del suo privato è una profonda
 contraddizione, salvata dall’apparente distacco e nello stesso tempo imprudentemente messa fuori scena. Poche davvero sono
 le occasioni in cui il professore sa ammiccare simpaticamente al pubblico. Lusingato, si nega alle 
avances di una
 ragazza, “Ci sarà un seguito, almeno?” dice lei, “Certo c’è sempre” è la risposta. Ironia? Cinismo? A piccole dosi,
 piccolissime, entrambi qua e là spuntano. Il cinismo è chiaro nel momento in cui quel “…non umiliarti” rivolto a Silvia
 (Myriam Catania) sa da facile e vile scappatoia, un misto dei due invece spicca nell’unico dialogo col padre (Vanni
 Materassi). Questo, a sua volta professore, gli confessa che ormai con la nostalgia ha imparato a convivere, come con il
 pensiero della morte, perché “solo gli imbecilli dicono di non pensarci mai”, afferma. Il figlio, da parte sua, confessa
 “Diciamo che mi adatto a prendere le misure”. Il padre aggiunge allora in modo tale che la somma “…tra dare e avere sia
 zero?”, “Sì, zero è un bel numero” risponde il professore. 
Battute eloquenti, o almeno le più felici della sceneggiatura, peccato che Greco non sembri curare le contraddizioni e
 finisce per livellarle sotto un impenetrabile silenzio e un’indecifrabile ambiguità. Silenzio e ambiguità sono i maggiori
 strumenti per fare un buon film, ma… se sapientemente messi in gioco. Qui non c’è spazio per giocare, ‘inutili’ parole e
 discutibili capacità espressive e registiche lascino la pellicola al di là di tutte quelle possibili risposte che il

 regista pare voler provocare. Ci si può rispondere… è sbagliato fuggire la realtà, è sciocco scegliere di vedere solo ciò
 che più ci fa comodo (ovvero, meno ci spaventa), è pericoloso voler controllare tutto della propria vita… quante altre
 risposte? Infinite se ne potrebbero trovare e tutte tanto valide quanto inappropriate come ogni scenetta maldestramente
 montata. Forse, allora, meglio non sbilanciarsi sulla risposta e lasciare ‘l’ambiguità’ dell’ultima scena. La luce del
 salotto di casa si accende e si spegne. Difficile dire cosa significhi per il professore... significa che ormai nemmeno la
 luce di casa ha più un valore legato all’intimità? Significa che è possibile vedere la storia sotto diverse luci?
 Oppure… accenderla e poi abbassarla significa ritrovare proprio quel senso d’intimità violato? Tutto questo, qualcosa
 d’altro… cosa di originale? 
Il tema alto non riesce a suggerire se non ipotesi troppo deboli rispetto al dato di fatto di un film lodevole
 essenzialmente per la pulizia della fotografia. Il rigore e l’eleganza non mancano all’opera di Greco, ma fermarli alla
 forma è un rischio. E 
L’uomo privato corre il rischio su una strada (quella del contenuto) troppo artificialmente
 e sconclusionatamente tracciata. Basti pensare, al professore malato catapultato dentro un incubo e la scena di questo
 inserito (perché?) nel montaggio. Va bene, il cinema descrittivo può non essere interessante, ma nemmeno una completa 
gratuità di ‘non senso’. Apprezzabile il tentativo di poggiare l’espressione del film sulla costruzione della messinscena,
 sfruttando i codici narrativi, l’ambiguità delle immagini e l’indeterminatezza della realtà, ma se a naufragare è poi la
 messinscena drammaturgica del tema centrale, poco vale giocare con il potere dell’apparenza e della sua suggestività.
 Auspicabile è l’universalità del tema, se il simbolico salva dal precipitare nel luogo comune insignificante. Ne 
L’uomo
 privato naufraga la messinscena del tema principale e il simbolismo stenta a vincere il luogo comune.
Anche le musiche del pluricollaboratore, Luis Enriquez Bacalov (sue sono le musiche di ben altri quattro film del regista:
 
Il Consoglio d’Egitto, Milonga, Una storia semplice, Un caso d’incoscienza), stentano a conquistare uno spazio
 sonoro importante e significativo. 
Conviene forse lasciare le parole del professore a chiusura di queste righe e… magari da qui ‘rileggere’ il film e pensarlo
 con quell’anima e quel respiro che il regista stenta a liberare. “Il Diritto non esiste in sé. È inafferrabile se si estrae
 dalla vita eppure il diritto non è la vita”. Aggiungere a Diritto l’attributo privato, o ancor più, sostituire l’uno con
 l’altro sostantivo… potrebbe suonare ancora ‘troppo’ retorico? Non toglierebbe nulla al film, comunque.