FUORISCHERMO

 

UN'IMMERSIONE
NEL MONDO DEL MUSICAL
MUSICAL: IL RITORNO
L’ultima stagione cinematografica rappresenta il ritorno nelle sale di un genere classico, che negli ultimi anni era caduto un po’ in disuso.
LADY HENDERSON PRESENTA In realtà, già con l’uscita dei due musical super acclamati “Moulin Rouge!” (2001) e “Chicago”(2002), questo genere cinematografico tipicamente americano era tornato in voga, per esplodere quest’anno con l’ingresso nelle sale di ben quattro commedie musicali.
La prima, “Lady Henderson presenta”, ambientata nella Londra del 1937, ha la sua carta vincente nella performance scoppiettante della coppia Judy Dench e Bob Hoskins, che, con le loro continue schermaglie verbali, restituiscono al film un tocco ironico e irriverente. In seconda battuta, troviamo “The Producers”, spassosa trasposizione cinematografica del fortunatissimo spettacolo di Broadway, scritto e musicato da Mel Brooks, con la coppia Nathan Lane- Matthew Broderick, già protagonisti a teatro, e con una Uma Thurman nell’insolita veste di una supersexy attricetta svedese.
Sempre da Broadway, arriva “Rent”, una sorta di moderna Bohème, che racconta gli avvenimenti segnati da droga, amicizie e amore di giovani artisti nella New York degli anni novanta.
Per approdare, infine, all’atteso “Romance & cigarettes”, l’ultima opera di John Turturro, che in collaborazione con i geniali fratelli Coen, questa volta in veste di produttori esecutivi, re-interpreta in modo bizzarro e a tratti audace, il genere musicale.
ROMANCE & CIGARETTES La storia narra le vicende di Nick (James Gandolfini), operaio in un’industria siderurgica, che si infatua della focosa (letteralmente) e rossa Tula (Kate Winslet), provocando così l’ira della moglie (Susan Sarandon) e delle tre eccentriche figlie, fino al riappacificamento canonico e non giustificato con la consorte e alla morte (insensata?) del padre di famiglia.
Insomma l’intreccio, che inizia come una farsa e finisce come un dramma, è piuttosto banale (non è certo il punto di forza del film) e si dimostra meno anticonformista del previsto, ma il tocco originale risulta dai dialoghi surreali ed esilaranti, tipici di un umorismo non-sense, e dai personaggi assurdi e stralunati (oltre ai protagonisti, ricordiamo le interpretazioni sopra le righe di Christopher Walken e Steve Buscemi). In ogni caso, l’audacia del film, se non è un elemento interno allo sviluppo della trama, è rappresentata sicuramente dall’uso di un linguaggio sfacciato e scurrile, tipico del miglior Bukowski.
Altro tocco singolare è l’uso di pezzi celebri per la colonna sonora, tra cui segnaliamo Quando mi innamoro, It’ a Man’s Man’s Man’s World e Scapricciatiello, durante i quali gli attori canticchiano sopra le voci dei veri cantanti.
Certo, quando balla James Gandolfini, l’effetto non è lo stesso prodotto da Fred Astaire, ma è proprio questo aspetto che produce la vis comica del film, secondo la stessa intenzione originaria del regista. « La cosa più difficile da far capire è stata l’idea che nel film si canta come fa la gente sotto la doccia o in auto, seguendo ognuno la propria colonna sonora fantastica. Stessa cosa per il ballo. All’inizio avevamo molti professionisti e una coreografia accurata. Ma io ho fermato la ripresa e ho aggiunto un po’ di casualità ed errore.»

MUSICAL: ORIGINI E STORIA
Quando pensiamo al musical, subito la nostra mente ci riporta al volteggiare della coppia Fred Astaire-Ginger Rogers o alle danze acrobatiche di Gene Kelly, finendo così col delimitarne la storia alla sola Hollywood degli anni quaranta e cinquanta. FRED ASTAIRE & GINGER ROGERS In realtà, la forza di un genere come questo è stata quella di aver saputo reinventarsi ogni volta, riuscendo così ad attraversare tutta la storia del cinema (quello sonoro perlomeno). Il musical è riuscito così con gli anni ad evolversi, trasformandosi da semplice show, qual era agli esordi, a film più maturo e di riflessione, soprattutto grazie all’opera di alcuni registi, che hanno saputo riattualizzarne strutture e contenuti. La commedia musicale ha infatti avuto il merito di essere il genere che più di ogni altro è riuscito ad erigersi a specchio riflessivo e instancabile del mondo del cinema. Inoltre, ha sempre rappresentato un eccezionale laboratorio, in cui sono state sperimentate anticipatamente tutte le rivoluzioni tecnologiche del cinema hollywoodiano: il suono, gli effetti speciali di qualsiasi tipo, il cromatismo rutilante del technicolor, fino ai grandi schermi dai nuovi formati degli anni cinquanta. Le sue origini si fondano nella tradizione del teatro popolare e nelle varie tipologie di spettacolo allora esistenti: dal vaudeville al music hall, fino a giungere alla commedia musicale. Un contributo fondamentale al suo sviluppo è sicuramente rappresentato da Broadway, luogo e coacervo di personalità e di idee, da cui Hollywood ha attinto in tutti questi anni. Tuttavia, è solo con l’avvento del sonoro, che il musical riesce ad esordire e a svilupparsi, strutturandosi come un vero genere cinematografico. E guarda caso, il primo film parlato è “Il cantante di Jazz”, datato 1927, che può essere considerato allo stesso tempo anche il primo film musicale della storia del cinema. Se visionassimo tutta la lunga lista di musical, ci accorgeremmo di quanto sia difficile, soprattutto dopo gli anni cinquanta, utilizzare dei sottoinsiemi per definire le varie espressioni o manifestazioni di questo genere. Ma per orientarci meglio, possiamo provare a individuare tre sottocategorie: lo show-musical, il fairy tale e il folk-musical.
Il primo, in cui al centro della storia troviamo il tanto agognato mondo dello spettacolo, con le sue invidie, la sua voglia di arrivare e le tante speranze, costruisce solitamente la sua trama attorno alla preparazione di uno spettacolo o di un film. A STAR IS BORN Per citare solo gli esempi più celebri, ricordiamo: “Quarantaduesima strada” (1933), primo film ad essere definito dalla critica un musical vero e proprio, il quale vanta le geniali coreografie di Busby Berkeley, assoluto innovatore del genere; “E’ nata una stella” (1954), con una strepitosa Judy Garland; “Chorus Line” (1985), che racconta la competizione per la selezione della chorus line (appunto), la linea sulla quale si dispone la prima fila dei ballerini dello show; e infine il musical diventato un culto tra i giovani “Saranno Famosi”(1985).
Il secondo sottogenere, il fairy tale, è incentrato su racconti fantastici o d’amore, e a questo aderisce tutto il filone del musical classico, che va dalla fine degli anni trenta agli anni cinquanta, periodo in cui le case di produzione si legano alle immagini delle grandi star del genere: i vari Fred Astaire, Ginger Rogers, Gene Kelly e il francese Maurice Chevalier. A questo proposito, come non citare “Cappello a cilindro” (1935), il più celebre dei film della coppia Astaire-Rogers, con le sue sontuose e irreali scenografie (come la ricostruzione kitsch di Venezia) e le sue magnifiche coreografie, tra cui l’indimenticabile e pluricitato numero musicale Cheek to Cheek; e ancora l’esempio paradigmatico della tipologia “Il mago di Oz” (1939), interpretato da una diciassettenne Judy Garland, che canta la celeberrima Over the rainbow premiata con l’Oscar.
Ma gli anni cinquanta, l’epoca d’oro di questo genere, sono anche gli anni dei grandi registi di musical, che hanno saputo trasformare le canzoni e le coreografie da puro spettacolo a numeri completamente funzionali alla storia e rappresentativi degli stati d’animo dei personaggi.
Tra questi, Vincent Minnelli, autore di “Un americano a Parigi” (1951), girato sulle note di George e Ira Gerswin, e di “Gigi” (1958), anche questo interpretato da Leslie Caron, affiancata qui da un habitué del genere, Maurice Chevalier. CANTANDO SOTTO LA PIOGGIA Altro regista di punta del periodo è sicuramente Stanley Donen, l’autore della più famosa e conosciuta, probabilmente, tra tutte le commedie musicali. Stiamo parlando ovviamente del capolavoro “Cantando sotto la pioggia” (1952), con uno straordinario Gene Kelly, che canta e balla sulle note di Singin’ in the Rain, simbolo assoluto dell’intera storia del musical.
Terza e ultima sottocategoria, il folk-musical, è quello che tra i tre sviluppa maggiormente le dinamiche sociali o familiari, come nel caso di “Sette spose per sette fratelli” (1958), firmato Stanley Donen, di “West Side Story” (1961), una sorta di trasposizione moderna di Romeo e Giulietta, e dello stucchevole “Tutti insieme appassionatamente” (1965).
Affrontando questo sottogenere, superiamo così l’epoca classica, nella quale è molto difficile trovare qualche esempio appropriato, e ci avviciniamo alle manifestazioni più moderne del musical. Infatti, con la fine degli anni cinquanta, questo genere cinematografico inizia a perdere compattezza e le strutture codificate iniziano ad essere abbandonate per privilegiare le interpretazioni più personali.
Con gli anni sessanta e settanta, irrompono sulla scena nuove soluzioni stilistiche, influenzate dalle ultime tendenze musicali come il rock’n roll prima e la disco music poi. Pietra di culto per tutti i fan dei pantaloni a zampa, “La febbre del sabato sera” (1977), porta sulle scene un John Travolta vestito di bianco, che spopola in discoteca sulle note dei Bee Gees per dimenticare la desolazione di una vita opprimente. Altro musical di quel periodo, “Grease” (1978), che riporta in auge i magnifici anni ‘50, ci presenta a solo un anno di distanza ancora John Travolta, questa volta col ciuffo e il THE BLUES BROTHERS giubbotto di pelle. Impossibile, infine, dimenticare “The Blues Brothers”, questo datato invece 1980, assoluto capolavoro della comicità demenziale, con un indimenticabile John Belushi, e passato alla storia anche per i momenti musicali ai quali danno vita alcuni tra i più grandi musicisti blues e rock di tutti i tempi, come Aretha Franklin, Ray Charles e James Brown.
Ed è sempre in questi anni che l’Europa inizia ad investire sul musical, togliendo agli Stati Uniti il monopolio del genere. Un esempio tra tutti è rappresentato dall’eccentrico e dissacrante “The Rocky Horror Picture Show” (1975), nel quale un Tim Curry in guepière e calze a rete inneggia alla liberazione sessuale, all’insegna del piacere assoluto.
Proprio negli anni settanta, arriva direttamente dal teatro una personalità, che, al pari di Vincent Mannelli, si rivelerà essere un grande interprete del musical, questa volta di quello moderno. Stiamo parlando di Bob Fosse, ballerino, coreografo e regista cinematografico, che firma due capolavori della commedia musicale: “Cabaret” (1972), ambientato nella Germania degli anni trenta, in cui una magnifica Liza Minnelli si esibisce nel “Kit-Kat Club” nei panni dell’aspirante diva del cinema Sally Bowles, sul sottofondo di Money, Money, Money; e “All that Jazz” (1979), una riflessione con riferimenti autobiografici sul mondo dello spettacolo e opera che conferma, per i temi trattati, come ormai il musical sia nel pieno della sua fase calante.
NEW YORK NEW YORK Dagli anni ottanta in poi, iniziano anche a comparire delle escursioni d’autore all’interno del genere. Registi come Scorsese e Coppola prima, con “New York, New York” (1977) e “Cotton Club” (1984), e come Allen e Branagh poi, con “ Tutti dicono I love you” (1996) e “Pene d’amor perdute” (2000), provano ad avventurarsi e a cimentarsi nel magnifico mondo del musical, personalizzandolo e arricchendolo. Altre due prove d’autore più recenti, e questa volta esclusivamente europee, sono rappresentate dal sui generis e drammatico “Dancer in the Dark” (2000) del danese Lars Von Trier e dal surreale “8 donne e un mistero” (2002) di Francois Ozon. Con la fine degli anni novanta, proprio quando il musical sembrava aver perso attrattiva e interesse, irrompe sulla scena il regista australiano Baz Lhurmann, che dimostra subito il suo interesse per questo genere, firmando nel 1992 il poco conosciuto “Ballroom - Gara di ballo”. Ma è nel 2001 che dirige lo psichedelico “Moulin Rouge!”, riuscendo a riportare l’attenzione e l’entusiasmo del pubblico sulla commedia musicale. Ambientato nella Parigi fantasmagorica e kitsch dell’epoca bohémienne, racconta la struggente ed appassionata storia d’amore tra la stella del Moulin Rouge, Satine, interpretata da MOULIN ROUGE una bellissima ed eterea Nicole Kidmam, e lo squattrinato ed idealista scrittore Christian (Ewan McGregor). La novità del film è rappresentata dalle canzoni, reinterpretate dal regista, ma ripescate nel repertorio moderno: tra le altre, Your Song di Elton John, Roxanne dei Police e The Show Must Go on dei Queen.
Del 2002 è invece, l’altro musical che ha avuto il merito di riportare in auge il genere, riuscendo nell’intento di rappresentare una riuscita rilettura del musical classico, senza però snaturarne i canoni. “Chicago”, omaggio dichiarato di Rob Marshall a Bob Fosse, narra le vicende di due ballerine, interpretate rispettivamente da Cathrine Zeta-Jones e Renée Zellweger, alle prese con la giustizia, dopo aver assassinato i loro amanti.
Sono questi due film che aprono la strada alle numerose attuali testimonianze del musical, dimostrando il fascino esercitato sulle platee da un genere cinematografico come questo, che pur modificandosi e rinnovandosi, ha mantenuto intatta la sua vitalità.

MUSICAL: RIFLESSIONI ONTOLOGICHE (sull’essenza del musical)
Se dovessimo definire la peculiarità o l’essenza del musical, penseremmo immediatamente al succedersi degli eventi in musica. DANCER IN THE DARK Ritmo, suono, vibrazione. Musica non più come mera figurante del film o elemento ridondante, ma questa volta in veste di comprimaria o addirittura vestita dei panni della protagonista.
E’ evidente che all’interno di un genere come questo è la musica ad essere il centro focale del film, l’elemento dominante. E’ lei l’anima, lo spirito da cui tutto si irradia, che tutto fa muovere.
Queste considerazioni ci portano a dedurre che i film musicali sembrano avere uno strumento in più per esprimersi: le note, il canto, la danza. Ma questo cosa com-porta? Cosa ap-porta al film? Se abbiamo detto che il centro dell’opera o l’evento originario è la Musica, questo vuol dire che tutto il ritmo della pellicola non può che risentirne, cioè che le figure, le scene, i personaggi diventano declinazioni specifiche e inevitabili di questa. Così, il fatto che le vicende del film accadano in musica, ha come conseguenza che ogni cosa, ogni aspetto dell’opera deve accordarsi alle sue note. I musical sembrano quindi viaggiare su una carreggiata diversa da quella di qualsiasi altro lungometraggio, sembrano possedere un ritmo tutto personale, una propria e specifica cadenza.
Altra caratteristica tipica del film musicale è il tocco di surrealismo che lo contraddistingue. Non è un caso che tutto il musical classico, come abbiamo detto precedentemente, aderisca al sottogenere del fairy tale, letteralmente “racconto fiabesco”, ambientato quindi in luoghi surreali e trasfigurati. Così, l’atmosfera che emana è onirica, favolistica. Infatti, come è noto, tutti i film d’animazione per i più piccini, che si fondano su questo presupposto, pur non appartenendo propriamente alla categoria della commedia musicale, utilizzano sempre melodie e danze per far esprimere i propri personaggi.
GREASE Ritengo che il fascino esercitato sul pubblico da parte del musical sia proprio questo: gli appassionati del genere sognano un mondo in cui la gente per comunicare si affidi alle canzoni e al ballo. Questo genere cinematografico si installa dunque su un piano diverso da quello reale o della verosimiglianza, si fonda piuttosto sul principio di possibilità. Tutto nel musical diventa possibile!
La spiegazione è semplicissima e piuttosto “empirica”: il fatto è che nella vita reale nessuno si esprime cantando e ballando ed è assai raro passeggiare per strada ed assistere a delle coreografie arrangiate al momento.
Stanley Donen, uno dei più grandi interpreti della commedia musicale di tutti i tempi, è chiarissimo a questo proposito: « I musical non sono reali? No, infatti sono meglio della vita reale. Il musical non ha limiti, è possibile raccontare tutto con il musical e non esistono regole. Anzi, vi dico una cosa, sarebbe meglio se queste cose che sto dicendo le dicessi cantando».
Oltretutto, la possibilità di affidarsi alla musica per intendersi con il prossimo, sembra avere un’azione liberatoria. Si può dire che eserciti quasi una funzione catartica. L’opportunità di trasformare le energie negative, improvvisando passi complicati e modulando il suono della voce, in qualcosa di vitale, può rappresentare un modo per incanalare o per sublimare (così direbbe Freud) gli impulsi più violenti.
Ma è poi così vero che il musical non rispecchia la realtà o l’essenza del reale?
Certo, pragmaticamente, qualcuno potrebbe contestare che nessuno comunica quotidianamente attraverso le parole di una canzone o grazie a dei passi coreografici, ma è pur vero che pensando al manifestarsi del mondo, mi viene alla mente l’immagine di una danza, di un ballo, gente che si muove, che parla, che cambia, che si evolve.
CHICAGO E la musica che cos’è se non ritmo? E il ritmo che cos’è se non un succedersi di suoni o di immagini, insomma un movimento? E il movimento è tempo, e il tempo è, secondo la definizione di Platone, l’immagine mobile dell’eternità, e quindi Vita. L’evento della Vita si declina in figure, e come dice bene il filosofo contemporaneo Carlo Sini: “Tutte le figure transitano, il che non è un loro difetto. Il transitare è la loro vitale ricchezza, cioè proprio la loro verità”. Dunque, tutto si muove, il mondo riproduce in sé la kinesis originaria, il movimento inaugurale.
E cosa allora meglio del cinema, che è appunto l’unica arte che è riuscita a riprodurre il movimento, e meglio ancora del cinema musicale, in cui la MUSICA è il centro propagatore, è in grado di testimoniare l’anima del mondo?
E allora forse il musical non fa altro che esplicitare, palesare quella danza originaria che noi tutti da sempre danziamo.
Se andiamo a vedere l’origine della parola musica, dal greco musiké, vediamo che ci viene descritta come qualcosa che riesce ad unire in sé stessa le tre arti fondamentali, rappresentate dalla parola, dal movimento e dal suono.
Musica, come arte suprema e originaria del mondo.
Lo stesso Platone nel “Timeo”, nel quale traccia attraverso un mito l’origine del Cosmo (il “Timeo” è appunto una cosmo-logia), dice chiaramente che il mondo è una musiké. Il ritmo è il fenomeno primordiale. “L’essenza delle cose è la loro musica”. Danza e musica come esempi paradigmatici dell’espressività degli affetti vitali. D’altronde che cos’è che testimonia l’essere in vita di un uomo, se non il battito ritmico del suo cuore?
E non è forse Hegel, che quando parla dello Spirito assoluto, usa l’espressione «e qui danza» , volendo indicare che è qui nel mondo, che questo si manifesta danzando? E la poesia, che originariamente era appunto parola unita a melodia, non è colei che ha il compito di raccontare lo spirito del mondo?
SETTE SPOSE PER SETTE FRATELLI Non si dice forse che i poeti sono in contatto con il divino? O che sono ispirati dalle Muse, le divine protettrici delle arti, nel cui nome ritroviamo guarda caso la stessa radice di musica?
Forse possiamo tentare di rispondere a questi quesiti affidandoci nuovamente alle parole di un esperto, Stanley Donen, «il musical è più vero della realtà, perchè gli attori quando cantano e ballano in una storia sono l’anima della vita reale».

RIFERIMENTI:
- “Il dizionario del musical” (ed. Electa, 2006), per le date e le informazioni più precise della seconda parte.
- La citazione di John Turturro della prima parte l’ho tratta dal CIAK di maggio 2006.