
Ogni inquadratura è un atto politico. Da questo assioma godardiano deriva l’essenza poetica dell’opera di Eyal Sivan. Nato a
 Haifa e cresciuto fra Gerusalemme e Parigi, Sivan rifiuta ogni compromesso partitico – non a caso è stato spesso accusato
 di antisionismo – per dare sostanza ed espressione ad un cinema di forte pathos civile, retto da una riflessione
 contenutistica ed estetico/formale che si sviluppa per antifrasi. Realismo e simbolismo, attenzione al dato contingente e
 necessità di considerare la Storia come elemento unificante del profilmico, capacità di attingere al sublime prendendo
 avvio dalle ferite del reale in un alternarsi ritmico di rappresentazione e presentazione divengono gli assi portanti dei
 film realizzati da un’anima scissa, di origini ebraiche, ma severa osservatrice dell’atteggiamento israeliano, scomoda
 perché indipendente.
Un’idea di cinema che emerge psicanaliticamente dall’humus morale a cui afferisce; un universo mai semplicisticamente
 univoco, immune dalla retorica della Terra Promessa, in cui il rapporto tra vittime e carnefici – che il luogo comune 
vorrebbe chiaramente identificati all’interno di una dialettica precostituita – è costantemente rielaborato in nome
 dell’urgenza di aderire al reale e non ad una sua faziosa ideologia.
Istanza etica dell’inquadratura che si traduce nella predilezione per il documentario e in tecniche di ripresa tendenti alla
 dilatazione della forma filmica tradizionale: carrelli e inquadrature fisse che delineano piani sequenza di raro impatto
 emotivo. Echi di Bazin e Astruc. Eyal Sivan e la caméra-stylo: la pellicola come sigillo replicato ventiquattro volte al
 secondo del pensiero di un autore; una questione fenoglianamente privata. Mai come nella produzione di Sivan, infatti, il
 cinema appare tanto personale da declinarsi come strumento di sovversione e palingenesi, nel senso più (pro)positivo dei
 termini: ripartire dalla condivisione di uno sguardo (e di un’idea di mondo) facendo affidamento esclusivamente sulle
 peculiarità percettive del mezzo cinematografico, ossia l’immediatezza simbolica delle immagini. Questo accostamento
 ossimorico, lungi dall’essere esclusivamente provocatorio, descrive precisamente il desiderio di ritrarre paesaggi naturali

 ed umani, elementi contingenti, e renderli archetipi, strutture di importanza universale. Viene abbozzata, insomma, una
 ricerca geoantropologica laddove quella geopolitica sembra fallire. 
Tali istanze sono evidenti soprattutto nei primi documentari, girati da troupe minimali con tecnologie leggere (il 16 mm o 
il video), spesso in condizioni herzogianamente estreme (un film del 1991, 
Israland, contiene sequenze registrate
 durante un bombardamento a Tel-Aviv). 
Particolarmente interessante è, all’interno di questo contesto produttivo, il secondo di due documentari gemelli: 
Aqabat
 Jaber: paix sans retour?  del 1995 (seguito di 
Aqabat Jaber, vie de passage del 1987). 
Aqabat Jaber è un villaggio profughi costruito nel 1948 dall’ONU a tre chilometri da Gerico, su cui sono converse differenti
 direttrici migratorie: si sono ritrovate in questo fazzoletto di terra genti provenienti dal nord della Cisgiordania come
 famiglie del Negev, formando un insieme disomogeneo per quanto riguarda le radici culturali locali, i cui componenti sono,
 tuttavia, accomunati dalla speranza di poter tornare, un giorno, nelle proprie terre d’origine. Un luogo di passaggio
 diventato, suo malgrado, agglomerato abitativo privo di identità: “So di essere palestinese, so cos’è la Palestina, ma,
 molto spesso, rimane soltanto un concetto. Dov’è questa nazione? Sicuramente non ad Aqabat Jaber”. Con queste parole una
 giovane donna descrive un sentimento comune all’interno del villaggio, che denota non solo un disorientamento
 socioculturale, ma anche un disagio più ampio, simbolo della sofferenza del profugo. 
Lo sguardo di Sivan persegue pudicizia e obiettività – un’obiettività intesa come sguardo anti-ideologico che sottolinea la
 propria soggettività, un’obiettività non-neutrale –, rifuggendo dal sensazionalismo melodrammatico per approdare ad una
 concezione del documentario molto simile a quella di Alain Resnais e Rithy Panh. In 
Notte e nebbia (1956) e 
S21
 La macchina di morte degli khmer rossi (2002) i due autori determinano i poli-limite di un medesimo spettro
 presentativo. Si confrontano con eventi storici di estrema pregnanza significativa (la Shoah e lo sterminio della
 popolazione cambogiana) partendo dal presupposto che l’arendtiana banalità del male non può essere rappresentata. L’unico

 modo di trattare cinematograficamente la questione è agire tramite vuoti figurativi: il vuoto “deantropizzato” del film di
 Resnais, definito da Truffaut come l’unico film possibile sull’Olocausto, in cui non compaiono mai figure umane e le
 baracche degli internati sono raffigurate come villette a schiera, e il vuoto “attivo” della pellicola del documentarista
 franco-cambogiano, in cui gli ex-carcerieri mimano le azioni commesse durante il servizio nei confronti dei prigionieri,
 evanescenza metaforica del non-senso che accompagnava la ritualizzazione della violenza. 
La volontà di prendere le distanze dalla pura e semplice rappresentazione, ossia dalla mimesi di eventi il cui nucleo
 sostanziale è irriproducibile, porta i due autori a presentare sullo schermo rovine, ciò che per antonomasia assume su di
 sé il meccanismo metamorfico (e anamorfico) che regola lo scorrere del tempo.
    
Ma se per Resnais il fulcro intellettuale dell’opera consiste nel tentativo di imbalsamare in senso baziniano edifici
 rovinati che oppongono ontologica resistenza nel sottoporsi al procedimento filmico (e, in generale, a quello fotografico),
 per Panh la sfida è riuscire, all’interno di un procedimento maieutico, a liberare il sostrato mnemonico di una vicenda la
 cui memoria è stata a lungo negata tramite rovine umane, esistenze segnate dalle torture subite e inflitte in un passato
 che si riattiva nell’incontro tra soggetti che condividono le medesime esperienze. 
In 
Aqabat Jaber: paix sans retour? risaltano entrambe le tendenze presentative: da una parte Sivan, entità
 ectoplasmatica presente esclusivamente in quanto voce fuori campo, fa collidere piani temporali personali – passato,
 presente e futuro degli intervistati – attraverso il racconto, parola che si consuma nell’istante stesso in cui trova
 espressione, rimanendo impressa nella memoria come rovina del pensiero; dall’altra osserva i segni che il mito individuale
 ha lasciato nel paesaggio. Edifici incompiuti, abbandonati o in costruzione: ogni mattone, ogni centimetro di cemento nudo
 si alimenta della propria instabilità, trasformandosi in epitome del processo disgregativo e orrido della Storia. 

La cinepresa indugia più volte su questo aspetto e, denunciando la propria impotenza – un’impotenza rabbiosa, mai rassegnata
 –, porta a visibilità la componente sublime della catastrofe. Un lungo carrello: case disabitate, muri, scritte inneggianti
 ad Al-Fatah e Hamas, 
Hamas è una buona madre per i suoi figli, un gruppo di giovani e vecchi che gioca a carte,
 ancora muri pittati, finestre senza vetri e tralicci di ferro che emergono dal cemento. In audio, commento 
off di
 un profugo: i suoi viaggi tra Amman, la Cisgiordania e Gaza, per poi giungere al villaggio profughi. Mythos personale che 
sfrutta saggiamente l’empatia come veicolo principale di trasmissione dell’informazione, mentre il magico esotismo della
 luce che diviene forma eidetica respinge il nostro continuo protenderci verso le immagini; mythos personale, attraente e 
terribile perché legato, dal punto di vista del rapporto tra significante e significato, al concetto di vanitas. Vitale,
 dinamico. Sublime. 
Tale elemento diviene ancor più interessante se si richiama alla memoria un documentario realizzato tra il 1968 e il 1971
 da Werner Herzog, 
Fata Morgana.
Girato in tre diversi angoli dell’Africa – Sahara Occidentale, Kenya e Tanzania -, è stato definito da molti critici un documentario surrealista: ogni fotogramma è contrappuntato da un commento 
off sceneggiato dallo stesso Herzog a partire dalle leggende tradizionali degli indios guatemaltechi. Le soluzioni tecniche sono molto simili a quella adottate da Sivan: la mobilità della macchina da presa è affidata quasi esclusivamente a carrelli, a cui si associano riprese effettuate da elicotteri. Il rapporto dissonante che si viene a instaurare tra la banda audio e il paesaggio, ritratto in campi lunghi, rivela una sensibilità culturale notevolmente influenzata dalle proprie radici: le visioni messianico/apocalittiche delle leggende indiane scorrono parallelamente a immagini wagnerianamente maestose, trovando come primo referente filosofico uno dei concetti cardine del pensiero moderno, il sublime dinamico – connesso, cioè, non alla grandezza matematica dell’oggetto, ma alla sua intrinseca potenza –, individuato da Kant nella 
Critica del giudizio (1790). 
In Herzog questa tipologia di sublime si materializza prendendo avvio da diverse strutture spaziali – si passa, infatti, da
 un paesaggio osservato realisticamente ad un tentativo di ridurlo a quadro astratto ottenuto per sovrapposizioni o per
 combustioni – che ricevono impulsi vitali da un mythos coniugato come fonte energetica fondamentale di uno straniamento
 linguistico, mentre in 
Aqabat Jaber: paix sans retour?  Sivan mette in atto un dispositivo speculare: si parte dal
 racconto, dalla componente temporale che conferisce senso ad un luogo altrimenti privo di identità, per mostrare le
 fratture che si vengono a creare fra costrizione e rivendicazione di una libertà conculcata, fra i danni provocati da una
 manipolazione della Storia e il diritto ad autodeterminarsi. Una forte matrice umanista come motivo caratterizzante di una

 raffigurazione ambientale: il sublime per Sivan consiste proprio nella volontà dell’oppresso di ingaggiare una lotta impari
 con l’oppressore, nella sua capacità di resistenza. Altra parola chiave nel cinema di Sivan: resistenza come riflessione
 coerente sul proprio lavoro, resistenza come costanza nell’utilizzare il cinema come strumento di analisi storica,
 resistenza come sollecitudine nel considerare le proprie opere come lavori perennemente incompleti, da riprendere nel corso
 degli anni, moniti per la coscienza in grado di evolversi. 
Per questo motivo la produzione sivaniana è costituita da una fitta trama di rimandi: il dittico su Aqabat Jaber, il cui
 primo film coincide con l’esordio del regista, ne è la più evidente testimonianza. Poco meno di dieci anni dopo aver
 concluso il primo documentario, Sivan torna nel campo, rintracciando tutti coloro che avevano partecipato al primo
 progetto. Durante questo lasso di tempo sono accadute molte cose: l’Intifada, gli accordi di Oslo, una pace instabile. Il
 campo rimane; alcune famiglie, pesantemente colpite dalla reazione israeliana alla sollevazione palestinese, stanno
 cercando di organizzarsi stabilmente costruendo abitazioni: “Non mi rassegno alla situazione. Però mi sto per sposare,
 devo vivere dignitosamente. Che altro posso fare?”, chiede un giovane intervistato. Il villaggio da semplice baraccopoli
 muta, così le aspettative della popolazione. In questo continuo gioco dialettico tra passato e (speranza nei riguardi del)
 futuro si presenta, dunque, un bisogno primario: superare un passato che continua a riproporsi perché non è possibile
 addivenire ad una sua elaborazione sistematizzante in vista di un futuro incerto, in cui l’illusione tende a farsi
 pericolosamente concreta. Come tangibile rimane l’odio verso la comunità ebraica. La parola ebreo diviene sinonimo di
 inquietanti luoghi comuni: l’ebreo è colui che entra in casa per razziare, l’ebreo odia i musulmani e li vuole sterminare.
 Si combatte, in entrambi i campi, un nemico che non si conosce e si vuole ignorare, come dimostrato dall’ultima sequenza:
 in un commissariato una carta geografica israeliana segnala che il villaggio è disabitato. 
Aqabat Jaber, luogo del rancore; Aqabat Jaber, luogo della miseria; Aqabat Jaber, luogo della sofferenza; Aqabat Jaber,
 luogo dell’oblio.